No, oggi non era giorno Catrame.
Ma.
Scrollate giù per il sommario di questa mail scontrollata, mix tra Inserto Infodemico e non.
Quando leggerete questa mail, io sarò a Milano.
Avete letto bene.
Questa è una mail scritta palesemente per mettere ordine nella sommersione emotiva. C'è tanto sentire.
Se non avete spazio emotivo per leggere il primo pezzo, prendetevi la lista di articoli e basta più giù, che mi fa piacere.
Sương mù è la nebbiolina del nord del Vietnam.
Ecco, con in mezzo un po’ di sole e caldino (ma mai troppo) a Huế e Danang, sarò ritornata dalla sương mù alla foschia di Milano — non tanto peggio di Hanoi come aria, fidatevi — con nello zaino pochissime cose: quelle che vanno bene a Milano a marzo.
Due stracci e una giacca vietnamita ricamata, perché anche nel disagio la nostra Marta Marzotto interiore comunque vuole avere un suo stile, quando va in ospedale. Anche perché non ho molte altre cose a maniche lunghe, onestamente.
Adesso vi spiego. In pratica, sto iniziando questa lettera a Da Nang, una città che sembra un ibrido di altre mille città costiere con i grattacieli sulla spiaggia: Busan, Miami, La Serena, Montevideo.
Sono qui perché c’è la spiaggia e perché era così il nostro itinerario vietnamita.
Sono qui anche perché qui c’è un aeroporto da cui posso prendere un volo per Bangkok, e poi da Bangkok andare a Milano, senza dover fare scali di 30 ore a Pechino e cose simili.
Del pre-occuparsi che non serve a una sega, se non a vivere male
Del Vietnam che è rimasto lì a metà come una
Selezione di articoli random supplementare: ne ho a strafottere, come dicono a Oxford.
Dove altro trovarci
Il sommario serve a farvi saltare meglio le parti che non vi interessano. Il parco giochi di Catrame ama la libertà cognitiva.
1. No te preocupes, ocúpate
Me lo disse anni fa la proprietaria di un ostello dove stavo da volontaria, in mezzo alle quebradas rosse di rame del nord dell’Argentina, ormai 12 anni fa.
Ero a Humahuaca, questa tizia ed io ci chiamavamo entrambe Paola, e lei aveva questo ostello dove stavo. Stava tutto il giorno a bere mate e parlare con chi stava lì, noi volontarie facevamo letti e pulizie in cambio di un letto gratis.
Insomma, questa tizia mi chiedeva se ero contenta di viaggiare, e io gli avevo detto: sì, ma sono anche preoccupata che succeda qualcosa a casa perché così tanto lontana non ci sono mai stata, per tanto tempo (bless my heart. La tenerezza della gioventù.)
[Quel che non le avevo detto: che mio padre era morto da pochi anni. Che il mio ex era morto, per sua stessa mano, quando stavo facendo lo zaino per andare due mesi a Kathmandu. Che pochissimo tempo prima della nostra conversazione, un nostro amico a Vienna aveva scritto un tweet ambiguo e poi era corso sul tetto della facoltà di arti applicate, buttandosi nel vuoto, a meno di trent’anni. Che io avevo trent’anni e mi ero già mangiata una quantità di tragedie che, anni dopo, posso serenamente dire che molte persone non vedono nemmeno arrivando a quaranta.]
No te preocupes, ocúpate, mi disse lei, e io le dissi: hai ragione. Razionalmente. Occupati del problema quando arriva.
Aveva ragione. Poi, tra il dire e il fare, c’è di mezzo un oceano. E quindi? E quindi, nel mio peregrinare, sono sempre partita con piantata in testa Ovunque Proteggi di Vinicio Capossela, perché niente di male succedesse a nessuno a cui volevo bene, famiglia o non, mentre io ero dall’altra parte del mondo.
Ho acceso candele, ho acceso incensi, ho guardato le nuvole pensando questa cosa, per oltre un decennio, perché una delle mie paure più grandi era trovarmi a dover correre in un aeroporto perché qualcuno stava morendo. Ero addirittura tornata a vivere in Europa perché ero distrutta dall’ansia.
Sette anni senza andare lontano, poi l’anno scorso sono andata in Argentina tre mesi a casa di Martín, chiedendomi, chissà se trovo nonna quando torno. Lei resiste da anni, anche se è sempre più assente. Anche se mia madre e mia zia sono esauste del lavoro di cura che non sono qualificate né attrezzate per fare, e che comunque fanno da almeno sei anni in maniera iper intensiva.
E niente, è venuto fuori che adesso, il corpo di nonna è stanco. E ci sta.
Ho pianto di dolore e frustrazione dell’essere così lontana quando l’ho saputo. Ho scritto a mille amiche nel cuore della notte vietnamita che da loro era sera, per farmi aiutare a decidere cosa fare, perché niente è ovvio, in realtà.
Ho scomposto con loro opzioni e opportunità, ho ascoltato opinioni, ho visto come persone di culture diverse rispondevano: corri, aspetta, ragiona, vediamo cosa puoi fare, vai ma non restare perché non puoi fare niente, vai e vedi, cosa aspetti, cosa senti? (Se siete tra queste persone che mi hanno aiutato a pensare, oltre che sentire, grazie veramente tantissimo, vi amo, ma lo sapete già.)
Alla fine, ho deciso che vado, per una decina di giorni, subito, perché nonna è lucida e magari tra un mese non lo sarà più.
E rispetto a tutte le morti che ho affrontato negli ultimi vent’anni, questa è la più razionalmente accettabile di tutte. Non perché io sia un’infame senza cuore che non ama la nonna che l’ha cresciuta:
ma perché è una morte che rientra nell’ordine delle cose, quello che mi faceva disperare per la sua assenza quando era morto mio padre, quando erano morti il mio ex e l’amico viennese. Quando sono morti i miei suoceri con intorno una situazione simile all'Apocalisse.
Perché anche se è doloroso, anche se farà male lo stesso la separazione, avvicinarsi alla morte a più di 90 anni è parte del ciclo della vita. E questo rende la mia preparazione alla cosa più facile. Ed è anche quello che sto cercando di passare a mia madre e mia zia, che hanno faticato tantissimo a mollare la simbiosi di cura in cui vivevano da anni: quando il tempo arriva, arriva. Ed aggrapparsi forte, invece che lasciare andare chi è già in rampa di lancio, rende tutto più difficile.
Per questo dopodomani prendo quell’aereo: i funerali sono per chi rimane. Io ci tengo, invece, a salutare chi sta andando, che si accorga che io ci sono o meno.
Ci metterò tre giorni di viaggio e so che saranno ore di viaggio molto strane. Sono pure mezza malata, ho lo stomaco a pezzi. Ma vale la pena. E siccome mia nonna sta al Fatebenefratelli e alle otto di sera mia madre e mia zia le buttano fuori comunque, me le porterò entrambe all’Anteo, al cinema, a fare una cosa bella che non fanno da anni: dopo il dovere, riprendersi il proprio piacere e coccolarsi. E poi, le porto pure a mangiare la pizza. Se vorranno.
Comunque, Paola argentina aveva ragione.
Ho passato dodici anni a preoccuparmi di cosa avrei fatto.
Settimana scorsa ho pianto. Ho ammorbato persone. Ho preso decisioni. Ho avuto flashback di quando avevo quattro anni, e continuo ad averne tantissimi. Ho smadonnato. Ho bestemmiato.
E’ stato piacevole? No. Sono ancora viva? Sì.
E’ servito a qualcosa preoccuparmi per una decade di questo tema su cui non avevo alcun controllo? Nemmeno.
Come quando ho affrontato le morti di cui sopra ed ancora altre, di fatto, alla fine, il messaggio che ricevo è:
Sei molto, molto più forte di quanto tu creda.
Poi, che mi sia rotta il cazzo di fare sempre la piccola samurai, quella è un’altra storia, per un altro numero.
Se leggi via mail e mi rispondi, te ne sarò grata. Mi servono le coccoline.
Se leggi sulla app, il mio cuore e la mia motivazione faranno un balzello se mi lascerai un cuoricino o un commento. Sempre per quella storia di ricreare la blogosfera.
È la prima mail che ricevi? Qui trovi l’archivio di tutte le altre, con altri consigli di lettura
2. Il Vietnam è rimasto lì
Come un pensierino non finito perché ha smesso di funzionarti la penna.
Ho saputo della nonna a Ninh Binh, con un tempo di merda in una stanza umida, così umida che mi si era rammollita pure nella custodia del computer.
Ho deciso cosa fare a Huế, in uno dei posti più belli in cui abbiamo alloggiato. Una villa gialla con il giardino e le persiane di legno scuro, e un giardino pieno di farfalle, bruchi e zanzare, e rane e rospetti e topolini, e fiori variopinti e meravigliosi, scelta da Martín per ragioni letteralmente terapeutiche (poi ditemi perché lo amo. Perché. Perché se mi vede piangere e soffrire mi mette in mezzo ai fiori in una strada coi vecchietti che bevono tè e mi dicono tieni, vuoi giocare col mio gattino? Perché sa che così mi riprendo. Ecco perché. Perché l’intelligenza emotiva. Ma la botta di culo che ho avuto, io non ve la so dire né me la riesco a spiegare, a volte.)
Ho aspettato il primo aereo a Danang, in un grattacielo con la vista sull’oceano, scrivendo Catrame, scendendo a camminare sentendomi nelle orecchie Il Mare d’Inverno perché non faceva freddo ma cazzo se era nuvolo e grigio, nonostante le palmette (io ormai ho l’hashtag mentale #icielidemmerdadelVietnam, devo essere onesta.) Naturalmente, è uscito il sole l’ultima mattina, ora che me ne sto andando. Inspiegabilmente, come anni fa, Danang continua a starmi simpatica, pure se non si può dire che sia bella. Ma è un tipo.
E poi basta. Arrivata alla mia parte preferita del paese, quella centrale, dove ricomincia a fare caldino, dove quella cazzarola di foga da petardo nel didietro che sembrano avere molti vietnamiti, tipo pure quando sei alla spa e dici mi coccolo con un trattamento (coccolati veloce, Madame), un pochino si rilassa, me ne devo andare.
Dice: è solo un viaggio. E’ vero. Ma mi sembra di rimanere lì come quando qualcuno ti sta parlando e non finisce una frase, e l’ultimo pezzo della frase lo sentirà solo Martín, che oltretutto detesta viaggiare da solo, al contrario di me.
E per non covare risentimento, siccome quando qualcuno è in hospice può durare un mese o sei, torno qui, e continuo a vedere la bellezza, un mese ancora.
Poi torniamo da dove siamo venuti. E dove sarò a un’ora d’aereo da tutta la baracca, invece che ventitrè.
E vi dovrò pure raccontare di come sia diverso, viaggiare sapendo dove ti senti a casa, rispetto a viaggiare senza avere una casa a cui tornare, come ho fatto per la maggior parte della mia vita adulta.
Io non glamorizzo assolutamente sta cosa dell’essere nomade digitale. Non me ne frega niente. Io lavoro in digitale solo perché in Spagna localmente il mio lavoro è pagato malissimo, perché mia madre vive in un altro paese, e ora sto con uno che vive a 13000km da casa sempre e quando si torna a casa mica lo si fa per una settimana. Per necessità e perché lo strumento c’è, e allora usiamolo per vivere meglio.
Ho fatto la nomade non digitale e poi anche digitale, ma la chiave è che in realtà è una cosa che per me è sopravvalutata, perché ha un impatto emotivo che la gente non valuta. E vedo che lo sta scoprendo molta gente che ha iniziato a vivere così dopo la pandemia. Le vedo, queste persone, nei gruppi di ND, che dopo x anni o x mesi soffrono isolamento e la mancanza di scopo, rete e radicamento. E chiedono: voi che avete fatto? Non tutte. Ma molti. E io gli dico sempre che appunto, questa vita non è per tutti. E che la risposta per ognuna può anche cambiare a seconda momento della vita, a mio avviso.
Una volta o un’altra vi faccio un pippone su perché la penso così. Ma non oggi, che sono di nuovo andata lunghissima.
Mi dicono che devo lavorare come tutti,
E quindi:
Se a te, o a qualcuno che conosci, può servire aiuto per sbloccare finalmente bene l’inglese parlato, efficacemente, per davvero e senza sbatti, in un luogo sicuro e con un livello di personalizzazione che Coco Chanel si sta già scansando, dimmi tutto.
Tête-à-tête, tu ed io, lavorando a quel che ti serve davvero. Sarai tu a decidere tutto. Decidi tu i temi, gli obiettivi, la durata del percorso e la maniera in cui lavorerai al tutto, col mio aiuto. Avete presente il classico corso d’inglese? Ecco, non c’entra niente. Si lavora diversamente, e talvolta molto più nel profondo.
Scrivetemi se avete domande, ovviamente, rispondendo qui o scrivendo a paola(@)flowingenglish.com. E… Parlatene anche a chi pensate possa essere interessato — gli amici di chi legge Catrame sono sicuramente persone interessanti. Almeno finora così è stato.
2. Rassegna stampa random a sorpresa
Perché il mio cervello bilancia, distrutto dalle decisioni, non riesce minimamente a leggere i libri
Dopo tutta sta pesantezza, mi sembra un ottimo momento per iniziare con la caterva di cose assurde che sono state minchiarite (mansplained) alle donne nel corso degli anni, in comodi screenshot (inglese.) La mia preferita? La numero 5. Essenziale e assurda.
Una domanda che mi ha fatto dire COSACAZZO a voce alta sull’autobus: come e perché sul fronte russo-ucraino ci sono soldati indiani e nepalesi? Io ci provo, a non avere un angolo #putinmerda ad ogni numero, ma quest’uomo e il suo regime me lo rendono davvero difficile. Che dire. Questo scoop del Guardian ha stupito addirittura l’amica giornalista di Chiang Mai. (in inglese.) E poi? E poi solo due giorni dopo ho scoperto che c’è una rete di russi che sta facendo lo stesso a Cuba, promettendo lavoro nell’edilizia (in spagnolo.) Invadere un altro paese è da merdoni. Farlo ingannando i poveri di mezzo mondo, non so che definizione dovrei usare, sicuramente è spregevole.
Nowruz, o Nouruz, è una festa che marca l’arrivo della primavera e che è super importante nella cultura persiana da prima dell’Islam, e io ho avuto l’immensa fortuna di capitare in visita da un ex studente proprio durante Nowruz, anni fa. Dall’anno scorso, a questa festa si sono aggiunte connotazioni politiche dovute alla morte di Mahsa Amini, e all’emergenza del movimento Donna, Vita, Libertà. Si parla del ruolo sociale di una festa pagana in un paese in mano agli ayatollah da decadi, e appunto, di queste nuove connotazioni politiche. (in francese.)
Same Same but Different non è solo un battutone dei negozianti del sudest asiatico quando hanno finito quello che volete voi e ve lo offrono di un altro colore o dimensione al mercato. Ve lo lascio spiegare dal mitico Stuart McDonald di Travelfish: “La differenziazione è il modo migliore per evitare che una destinazione diventi solo un doppione, o uno swipe momentaneo intercambiabile su uno smartphone. Le destinazioni e gli scrittori di viaggio che vogliono essere preparati per il futuro farebbero bene a tenerlo a mente e a impegnarsi di più, molto di più, per amplificare il "diverso" nel vecchio tormentone "Uguale ma diverso.” Sembra un pippone? Forse. Ma se ci piace viaggiare, è bene farsi domande. Gli algoritmi e il turismo stanno letteralmente uniformando tutto a livello visuale. La risposta al problema? La cultura. Sempre lei, benedetta lei. (in inglese)
A questo proposito, uno che di domande se ne fa assai è
, che su Vita da Nomade si mette in questione con una onestà ed una sintesi ammirevoli: “viaggiamo per vivere un cambiamento ma finiamo per infliggere un cambiamento agli altri”.Io, più invecchio, e più posso dirmi d’accordo con Fernando Pessoa. Non perché non voglia più muovermi e vivere (vivere. Rileggendo ho visto che la parola chiave è questa — vivere, non viaggiare) in culture diverse dalla mia. Ma perché, anche in questo viaggio, mi sto rendendo conto che ho imparato di più a fare la expat/emigrata che la viaggiatrice/turista. Per le stesse ragioni per cui sopra vi dicevo che non aspiro a essere nomade digitale. Anche perché ho avuto anche io una conversazione sull’autenticità degna di nota, settimana scorsa, dove ho sentito un tot di cose senza senso. Poi vi dico. Vincenzo scrive in italiano.
Continuiamo col filo conduttore del nostro rapporto con l’alterità con
che ha intervistato Ilaria Benini della mia amata ADD Editore sulla collana Asia. Lascio la parola a Ilaria: “Vista da là, dall’interno, l’Asia era rilevante e conteneva tantissime voci da ascoltare, ma osservata dall’Italia era spesso rappresentata come meta di turismo esotizzante (“Sono stata in Thailandia/India/paeseasiatico-a-caso ed è stata una vera lezione di vita: più si è poveri più si è felici!”) o oggetto di critica banalizzante (“In Corea sono barbari, mangiano i cani!”, “Ah cinesi, giapponesi, chi li riconosce? Tutti uguali, sono popoli di automi” portando a dimostrazione la mancanza di democrazia in Cina o l’esistenza della cultura Otaku in Giappone). Nel tempo ci siamo allargati a tutto il continente e abbiamo iniziato a pubblicare anche narrativa.”Se volete scoprire il mondo asiatico leggendo, ADD è vostra amica. Non è una marchetta. E’ che mi piace, chi fa le cose con amore e competenza.
Siccome non vi sto dando i consueti consigli di libri perché sono troppo agitata per pensarci, e invece ho una caterva di articoli, lascio fare il lavoro a quelli lì del Booker Prize che mi danno idee bellissime da anni. Hanno appena pubblicato la longlist dell’edizione internazionale del premio: contiene autori che hanno scritto in albanese, polacco, tedesco, spagnolo, portoghese, svedese, russo, olandese. Sicuramente troverete ispirazione in una lingua che sapete.
Io proprio oggi ho comprato The Details di Ia Genberg perché l’ho trovato in digitale a pochissimo, e volevo farmi un regalino per lo strapazzo emotivo di questa settimana. E mi piace come ho sentito descritto il libro in un podcast: come una storia che racconta anche la luce di un luogo, Stoccolma, dove non sono mai stata.
Se Catrame ti dà materiale di riflessione e immaginazione, e vuoi lasciarmi una donazione libera, te ne ringrazio.
Non ti dico offrimi questo o quello, perché mi sono rotta le palle di leggerlo nelle newsletter altrui. Quindi non lo voglio più nella mia.
Premia la mia onestà e il mio tempo, se vuoi e puoi, e se no… no. No pasa nada.
Non c’è un minimo, pay what you want come il mio ristorante pakistano preferito ai tempi di Vienna, che ha questa politica da decenni, e tiene botta, e vi rimetto il link nel caso andiate a Vienna a Pasqua.
Non ti basta sentirci due volte al mese? Bene! Troviamoci su LinkedIn. Lì scrivo (in inglese) un sacco di roba su come funziona il Neurolanguage Coaching, e perché quello che faccio è diverso da un corso d’inglese. C’entra molto poco, e ti dà tantissimo potere perché non c’è una maestrina a dirti fai questo e fai quello. Cosa fai e con che tempi, lo decidi tu, non io.
Su Instagram sono @migrabonda, se vuoi seguirmi lì, ma lo uso poco e soprattutto per seguire gli altri account. Soprattutto da che ho Substack!
Vi mando un abbraccio.
Il prossimo numero sarà Catrame Extra, l'Inserto Infodemico di articoli e podcast, a un certo punto di aprile.
O forse sarà Catrame Normale. O un mix.
L’essere parco giochi di Catrame fa sì che possa succedere un po’ la qualunque, se capita un mese emotivamente scontrollato come questo.
Non ho capito bene da dove scriverò, perché dobbiamo capire poi se rimaniamo ancora più tempo in Asia. A sto punto, forse allunghiamo e andiamo anche in Cambogia. Se non iniziamo a sentirci troppo homesick, perché ad oggi, a due mesi e mezzo dalla partenza, un po’ sta accadendo. A Martín manca Barcellona. A me manca non essere negli alberghi tutto il tempo.
Grazie di leggermi.
Un saluto da Milano, laggiù fuori dalla cerchia della 90
Mi dispiace. Per me, il tempo di viaggio/nomadismo perfetto è diventato al massimo tre mesi, poi è stancante cambiare in continuazione hotel, ostello, airbnb. Aspetto la newsletter sul nomadismo digitale che come dici tu, diventa semplicemente la cosa più pratica, logica, bella da fare, se si creano tutte le condizioni, un abbraccio
Ciao Ama, spero che il mio affetto abbia moltiplicato l'effetto dell'enterogermina <3