In questo numero:
Sfuggente è la parola
I libri del mese: in autostop per la Francia; due donne in conversazione tra Giappone e Canada
Una canzone e un album che mi hanno causato un viaggio mentale verso il passato, nel tempo e nello spazio
Fuori da qui: perché lavoro come lavoro, la mia newsletter in inglese, programmi di language coaching; link di cazzeggio vari
Saggezze fulminanti, da Venezia con furore
Tempo di lettura: 15 minuti circa, da qui in giù. L’amore ha bisogno di aria e di spazio.
Spezzettate, andate, tornate. Liberamente.
Come fa Fratellovolante, che legge Catrame nei giorni che fa quattro tratte in aereo, per rilassare il cervello.
(Ovviamente il mio podcast fratello lo tiene per quando è a casa e deve cucinare e pulire. E chi non. Oggi esce la seconda puntata dei Padri di Piombo, quella con le cose da leggere, questo se riesco a fare editing prima della conferenza di neurolanguage coaches a cui vado venerdì e sabato, a Sitges — mica cazzi. Se andate su Spotify e non trovate la seconda parte del Tinello, sappiate che è perché sono stata rapita prima di finire tutto. A volte mi servirebbe davvero un attendente. Scrivo questo paragrafo con la cazzimma di chi spera di farcela)

Se stai leggendo su Gmail, assicurati di cliccare su “scarica l’intero messaggio” per non perderti nemmeno un pezzo.
1. Buenos Aires, oltre la vita notturna, il tango, e Carlos Gardel
Sfuggente è la parola.
Inafferrabile.
Come tutte le grandi città del pianeta, Buenos Aires contiene multitudini.
C'è la città, per gli amici CABA, CApital Buenos Aires, e c'è la AMBA, l'area metropolitana di Buenos Aires, che include posti come questo:
Tigre. Ancora Buenos Aires, anche se non sembra. Le casette in legno, ci si muove in lancia, non c'è rumore di auto, ci sono un sacco di zanzare, pochi umani, tantissimi cani lasciati liberi che sono tutti rilassati come chi non rischia di essere investito di continuo, e così tanto silenzio che quando tira vento senti il rumore dei salici. E di notte, ci sono le lucciole. Il casino di Retiro, la stazione centrale di treni e bus, è a meno di un'ora di treno di distanza, e sembrano due universi e mezzo.
Raramente chi arriva per turismo si spinge fino a qui: le persone hanno poco tempo, e comprensibilmente, si limitano a quello che le persone si aspettano da Buenos Aires: le milongas, San Telmo, il fútbol in alcuni casi, Boca per i più, River per chi ne sa già di più e va oltre la storia di Maradona col Boca, la vita notturna di Palermo, l'eleganza di Recoleta. I più coraggiosi visitano l'ESMA e il suo museo della memoria, a cui comunque Milei ha ridotto staff e risorse. Chi ama l'arte va al MALBA, magari (io per prima). Il fiume lo vedono a Puerto Madero, fanno passeggiate ai boschi e al roseto di Palermo.
Io, ogni volta che torno, vengo presa inizialmente dalla FOMO dello stare dietro a tutto, del cercare di capire cosa succede dove, e di organizzarmi per tempo, per arrivare all'evento che mi interessa, che generalmente da casa nostra implica un'ora e mezza di viaggio.
È una città viva. Le persone da un lato ti accolgono, ti tirano in mezzo, però se vuoi accedere a cose specifiche che ti interessano, come in ogni metropoli degna di questo nome, devi scavare. Tanto. Perché
è anche una città densa e misteriosa, labirintica, che accoglie ma anche che cela:
non sono affatto stupita che Borges sia nato proprio qui.
Buenos Aires querida… Ha mille facce.
E le più evidenti sono così seduttive che è un attimo che resti imbambolata su quelle.
È la città delle guide turistiche che ho menzionato.
È la città di pescatori, barche a vela, parchi sull'acqua, fiori, fiume e alberi immensi del nostro barrio.
È il delta del Paraná, al Tigre, che la prima volta che l'ho visto sono impazzita perché sembrava un sacco il Mekong.
È fatta di villas umili dove le persone fanno tantissima fatica a starci dentro, però, com'è come non è, non mollano mai, e io le ammiro per questo.
È fatta di magioni chic, di avenidas bruttissime, di strade con casette in mattoni che sembrano Londra, di case bianche coi tetti scuri che sembrano Parigi, di case coloniali color senape che sembrano Città del Messico.
Di caffè storici con i camerieri in livrea, gli interni in legno, le vetrate colorate, i dettagli liberty, i clienti coi capelli bianchi. Quelli dove passerei tutto il giorno, molti giorni a settimana.
Di caffè hipster con dentro gente così cool che più cool non si può. Quelli dove io non vado perché hanno tre sedie in croce, scomode, prezzi ridicoli, non comprano il giornale e non ti fanno un tostado decente.
Di treni urbani con i venditori di chipá, di calzini, di incensi fatti a mano, di alfajores, di caramelle, di qualunque cosa, con i musicanti e con i cantori. (Uno di essi è mio cognato, che guadagna di più così che lavorando in cucina. Per dire.)
Di edifici che da fuori sembrano piccoli e dentro sono labirinti, con due, quattro, sei cortili e piccoli giardini, profondi un isolato intero.
Di artisti grafici, di musicisti, di scrittori, di mille piccole case editrici e tipografie magnifiche, di radio indipendenti e autofinanziate, di persone creative ovunque che faticano a vivere come le persone creative ovunque in un sistema tardo capitalista che premia solo l'utile e il misurabile, ma che in più, in Argentina, è soggetto a crisi sistemiche, malfunzionamenti, crolli e devastazioni periodiche in varie forme e maniere dal 1976 ad oggi, perché la società argentina mai si è ripresa realmente, proprio a livello di impatto economico, dagli anni della dittatura e da quell’aumento repentino del tasso di povertà.
È la città dei cinema e degli amanti del cinema, delle istituzioni locali che cercano di continuare a offrire cultura accessibile in una cronica situazione di mancanza di fondi.
È fatta di gruppi femministi, attivisti e militanti di ogni tipo, genere e causa, aiuto collettivo, sostegno mutuo.
È fatta di segmenti di popolazione classisti e liberisti, che disprezzano i poveri, che spesso poi sono anche le persone dalla pelle più scura o dal sangue indigeno. Un'identità tra classismo e razzismo che ti fa capire la carica esplosiva di un Maradona di successo uscito dalla villa.
È fatta di discendenti di migranti europei, di migranti contemporanei da Venezuela, Bolivia, Paraguay e Perù, di expat brasiliani dai portafogli pieni e l'accento canterino, di pochi sparuti coreani, dei cinesi, che invece sono tanti e hanno creato una Chinatown vivace, che mi mette allegria.
Di parchi giganti, di riserve fluviali e giardini botanici, di minuscole strade ancora con il ciottolato di trecento anni fa, costellato di petali di jacaranda, ceibo, bougainville, acacia.
A Buenos Aires è più evidente che altrove,
che gli alberi hanno un'anima, un carattere.
Che sono esseri vivi.
È città di teatri, di centri culturali, di librerie indipendenti che fanno anche cultura dal vivo, da grotte di tango dove alternano ballo e poesia fino a mattina, di locali rumorosi per giovani facoltosi che sembra di essere negli Stati Uniti per quanti anglofoni ci sono dentro, di gelaterie di quartiere che sono punto di incontro di classi e generazioni, di piazze costellate di panchine e platani, dove bere il mate all'ombra quando fa caldo.
Potrei andare avanti per giorni.
Soprattutto, sto sentendo mancanza mentre scrivo, quindi è evidente e confermato che il quartiere di Martín, in parte, ormai è casa anche per me.
Ogni volta che torno, c'è questa sensazione doppia da un lato di sentirmi sempre più a casa, e dall'altro, di non riuscire ad afferrare la città, perché è così sterminata, così sfaccettata, che forse cercare di afferrare un’essenza è un'attività futile.
Quel che è certo che Buenos Aires è una città che visitata qualche giorno è bella.
Visitata per mesi è straordinaria, per il suo modo di scuoterti o coccolarti, sempre di toccarti. Dipende da dove finisci. Anche da che esperienza cerchi.
Penso che questa sensazione di difficoltà ad afferrare tutto quello che accade, questa sensazione che da qualche parte sta succedendo qualcosa di incredibile che io non ho notato, l'ho avuta forse solo a Londra e a Tokyo. Che infatti sono città che amo. Forse anche per quel poco che ho visto di Città del Messico, ormai più di dieci anni fa.
Non so se mi sto spiegando bene, ma spero di sì. Comunque c'è anche una dose di sindrome di Stoccolma.
Se volete dirmi dove vi siete sentiti così, se mai vi è accaduto, ditemelo. Perché la questione è che è una sensazione che non mi frustra, affatto: mi fa sentire che ci sono mille possibilità di cose da vedere, ascoltare, fare, contemplare.
Manifesto
Due volte al mese, il mio obiettivo è aiutarvi ad aumentare la diversità culturale presente nelle vostre vite.
È un modo diverso e gioioso di fare politica.
Se il diverso lo ascolti, lo conosci, lo leggi, tenti di capirlo, da una posizione di apertura e curiosità, apprendendo dai e dei modi altrui di stare al mondo, è più difficile essere chiusi e bigotti. E non per forza questa apertura la si deve cercare attraverso il viaggio, che non è alla portata di tutti.
La cultura può permettere di aprirsi anche a chi non può o non vuole muoversi.
Se volete sostenere Catrame, dare valore al tempo che prendo per pensare, scrivere le mail e registrare gli episodi per qui e per Spotify, o aiutarmi a pagare gli abbonamenti che pago per leggere e selezionare cose per voi, potete farlo così:
condividere Catrame con chi potrà amarlo, lasciandomi stellette su Spotify (per aiutare la diffusione del pod) cuoricini sulla Substack app (per aiutare la mia produzione di dopamina) rispondendo alle mie mail (per palesarvi e farmi sentire che non sto parlando da sola: a volte con le newsletter può esserci questa sensazione, al contrario che sui social)
farlo con una donazione libera una tantum, cliccando sul bottone qui sotto, come abbiamo sempre fatto! 3, 5, 10€: tutto fa, e tutto genera gratitudine.
2. I libri del mese
Ormai ve ne metto due o tre massimo perché la sommersione cognitiva è il segno dei nostri tempi. Moltɜ tra voi mi hanno detto che preferiscono meno consigli. Io non voglio sommergervi ed eseguo, ma vi esorto anche ad evitare il completismo, che è una grande fonte di stress.
E poi, sono consigli, mica compiti! Non scappano, le storie.
Comunque ok 💜
Par Les Routes, Vite di Passaggio, di Sylvain Prudhomme, 66th and 2nd Questo libro è magnifico, etereo, memorabile. Se vi sembra che l’ho già consigliato, è perché ve lo avevo già consigliato la scorsa estate, e ora che ne scrivevo, me ne sono ricordata e mi sono fermata. Però insomma, un libro che mi viene da passarvi due volte non era ancora successo, e questo dovrebbe darvi una misura dei livelli di immenso amore che provo per questo libro (e per Sylvain Prudhomme.) Quindi, per aggiungere ai consigli dello scorso anno, vi lascio un’intervista con Sylvain. Il suo ultimo libro, Coyote, racconta di come ha percorso la frontiera US-Mexico in autostop.
Come non amare uno che dice nelle interviste “non potrei mai essere uno scrittore rinchiuso nel suo studio”, come? Se vi sembra che abbia una cotta letteraria (ma non solo: un ex collega professore di francese che ha vissuto in Camerun, alle Mauritius, in Niger, in Senegal? Ma portate il vino e del formaggio, subito, voglio ascoltare tutta la sua vita, tutta la sera) per il buon Sylvain, è perche ce l’ho. Tantissimo.
A tale for the time being, Una storia per il tempo presente, Ruth Ozeki, E/O Mi sono accorta che l’editrice e/o ha tradotto questo libro, finalmente, in marzo di quest’anno. Io lo lessi nel 2016, su un'isoletta indonesiana. Ero in vacanza con un'amica dopo mesi difficili, e ricordo che mi era piaciuto molto. Non è per tuttə — è molto particolare, per certi versi è una meditazione. Una delle due voci narranti si chiama Nao, pronunciato come Now, ora. Si passa dalle correnti oceaniche alla teoria del multiverso, c'è lo tsunami del 2011, ci sono mille altre cose, un diario ritrovato e una monaca zen, mi pare, ma principalmente c'è la questione della felicità, del qui, ed ora. Per me è archivio, per voi è nuova pubblicazione. E come sempre… Mi è venuta voglia di rileggerlo!
3. La musica che si prende cura dell'amore
Quando l'amore si fa distanza oceanica. Per settimane, che diventano mesi
La questione, per me, con l'Argentina, è che quando tu per anni stai con una persona che viene da un paese, un po' ti integri con quel paese: diventa parte della tua vita.
(Ovviamente non sempre: dipende anche dal carattere della persona in questione. Il mio ex viennese era molto viennese, ma rifiutava la propria identità. Si muoveva in un mondo globalista, piuttosto asettico visto col senno di poi, e lui viennese non voleva essere. Con me parlava solo inglese, pure se io parlavo il tedesco, non ha mai imparato l'italiano, e in Austria, dopo che ha fatto il pieno dei soldi che gli servivano per andare via, ci tornava col cazzo, e se doveva, era tutta una lamentazione. Il che è molto viennese, basta guardare all'allegria della loro produzione letteraria, ma lui non amava che gli facessi notare questa ironia, hehehe)
Poi invece c'è chi ha altro carattere: il sole negli occhi, la dolcezza d’animo e il cuore più leggero, tipo Martín, che l'abbiamo assunto apposta nonostante ci siamo conosciuti quando io ero in sciopero relazionale. È riuscito a sollevare il picchetto. Lambendolo piano. Con quel mix di paraculaggine e avvolgenza che ho imparato ad associare agli uomini di quelle parti. (No, non è stato il primo. Barcellona pullula di argentini. E anche Milano dopo il 2001 era piena. Era solo questione di tempo. Era evidente)
Come quasi ogni migrante, anche lui ha un rapporto complicato col suo paese, ma la produzione culturale – letteraria, musicale, cinematografica – la ama, e ama condividerla con me. Come io amo fargli conoscere la mia — nonostante le tendenze terzomondiste che vedete qui dentro, insegno anche l’italiano per stranieri, anche se molto meno spesso dell'inglese. Condividere la componente culturale di da dove vengo, per quel che so ancora come emigrata di lungo corso, le poche volte che capita ancora, è un piacere.
Una delle caratteristiche della nostra relazione è che, per ragioni varie, finisce che passiamo spesso mesi e mesi separati, ai due lati dell'oceano. Praticamente da sempre. Se il tuo compagno sta a 12000km da te risolvendo problemi, non è che puoi dire, mi manchi, vengo lì per il weekend. Devi aspettare, e punto.
E lì, la cultura diventa ponte, una connessione che aiuta a gestire as saudades, a sentirmi abbracciata da lontano: il mio consumo di musica argentina si impenna, quando lui è lontano.
Spesso vado in fissa su un artista o su un album, che spesso oltretutto nulla hanno a che fare con Buenos Aires, perché io amo tantissimo anche la musica tradizionale di altre regioni argentine.
Sento un chamamé, e ho già caldo pure se ci sono 6 gradi, e davanti a me ho mentalmente un piatto di pesce d'acqua dolce che sa un po’ di terra, pescato da qualche parte nel Paraná, e un tereré gelato, con quei thermos giganti pieni di ghiaccio che si usano nel nord tropicale, e in Paraguay.
Fiumi larghissimi, spazi sconfinati, verde brillante, acqua fangosa di fiumi dal fondale limaccioso, così diversi da quelli rocciosi e limpidi delle Alpi, che riflette il cielo, facendosi verde-marrone. Di nuovo lo spazio infinito, canyon rossi di minerali, casette bianche col tetto ricoperto di paglia, vecchie dimore spagnole con giardini rigogliosi intorno. Voglia di ritornarci, nel Nord argentino, in entrambe le sue facce, quella arida di deserti e quebradas, i canyon, a nord, al confine boliviano, e quello umido di selva verdeggiante, quello che mi ricorda l'Asia nella sua lentezza languida di caldo estremo, il dito che si insinua tra Paraguay e Brasile e finisce nelle cascate di Iguazú.
Il ditino argentino è stato il primo pezzo del paese, dove sono arrivata 13 anni fa, in autobus, dal Paraguay (prima o poi vi racconterò come e perché ero finita proprio in Paraguay, dove un decennio e passa fa andava ancora meno gente di ora) e ho sentito per la prima volta l'avvolgenza della insiemitudine argenta,
con il proprietario del primo ostello dove ho lavorato a Puerto Iguazú, che guardandomi pulire con efficienza europea a 40C mi ha detto: siediti a fare una pausa, mangia questa chipá, bevi questo tereré, fa un caldo della madonna. Finiamo di pulire dopo che tramonta il sole, lì ci sono le amache. Dormiamo un po', prima. Poi finiamo, mangiamo qualcosa, ci beviamo un vino. O se no mañana, che non arriva nessuno prima delle due. Un eco moderno del mondo lento dei grandi fiumi di lì, descritto nel libro di Pariani che ho consigliato qualche numero fa.
Vi lascio un link ad un artista che amo molto, che ha il nome guaraní, e il cognome siciliano — uno di quei mix vertiginosi che trovi solo nelle Americhe. Questa canzone è la sua versione di una famosa canzone di decenni fa, che racconta di pescatori in movimento, fiumi larghi e profondità fangose. Lui suona la chitarra in maniera molto speciale, ed ha anche una voce bellissima. Dalla canzone, poi, spippolando su Spotify potrete trovare il resto della sua produzione musicale.
4. Cosa faccio quando non “cazzeggio” qui o sul pod
Che poi, cazzeggiare, parolone: la produzione di un episodio del pod mi prende circa 3 ore tra registrazione, editing e pubblicazione su Spotify, ridendo e scherzando. Per fortuna è piacere e non dovere
Il mio progetto di coaching linguistico è nato perché le scuole di lingue sottopagano e maltrattano chi insegna. Io mi ero stufata di non avere né tempo né soldi né certezze. Ho deciso di cambiare modalità di lavoro per avere autonomia decisionale e didattica al 100%, per essere meglio preparata a gestire l'emotività di chi lavora con me, e per non essere più sfruttata. Certezze sempre zero, ma posso fare il mio lavoro in primis come serve davvero a chi mi sceglie, e poi come piace a me, lasciando spazio anche alle clienti per cui scrivo, poche ma buone, e soprattutto alla mia vita creativa.
Se a te, o a qualcuno che conosci, può servire un po’ di Neurolanguage Coaching per usare finalmente l’inglese efficacemente, senza sbatti, in un luogo sicuro dove non ti sudano i palmi delle mani perché devi performare, fare un po’ di coaching linguistico con me potrebbe fare al caso tuo (o loro). Tête-à-tête, tu ed io, lavorando a quel che ri serve davvero. Sarai tu a decidere tutto, col mio aiuto. Parliamo? Completa questa form per parlare venti minuti circa: tu mi dici che ti serve, io ti dico come lavoro, e vediamo come ci sentiamo a chiacchierare. Nessuno vende niente a nessuno, senza pressione o impegno. Ho un solo posto libero da giugno, quindi anche volendo, non potrei essere insistente perché non ho spazio.
Budget ridotto? Ho uno spazio pure per aiutare te, perché la cultura deve essere accessibile. Si chiama The Joy Luck Café, e siamo pres3 benissimo. L’ultima volta siamo finite dalla AI al poliamore, non sappiamo bene come. Vieni?
Leggi gratis The Mindful Speaker, la mia newsletter in inglese, così inizi a far pratica. Due mail e due citazioni al mese per farvi riflettere, in attesa del mio podcast in inglese (arriva. Giuro) Se usi LinkedIn, qui, qui, e qui parlo di come funziona il coaching linguistico. Il mio Instagram di cazzeggio multilingue è @migrabonda. Se usi la app di Substack, qui c’è Notes.
Le mie interviste su lingue e viaggio da sola in inglese, francese e italiano, qui
È la prima mail che ricevi? Qui trovi l’archivio di tutte le altre :)
5. Diciamola tutta

Grazie a haikuveneti su Instagram per l’impaginazione del concetto qui sopra.
E anche per sto giro, abbiamo finito.
A tra un paio di settimane, con Bignamino Spotify e Inserto Infodemico.
Come sempre, grazie di esserci 🧿
Pao
Voglio andare in Argentina. Con te che mi porti in giro però. 😹
Ma wow, che bello sentirti parlare così della mia Buenos Aires, mi riempie il cuore che una persona non nata lì possa amarla così tanto, è bellissimo. Hai scritto una puntata stupenda, grazie, mi sono commossa. Un abrazote a te e a Martín ❤️❤️