Riflessioni e link:
Tropico Triste e spazi per le emozioni
I libri del mese
Una cosa in tema da ascoltare
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Sull'amicizia, da un autobus brasiliano
Tempo di lettura: 14 minuti circa.
Saltare i pezzi o leggere in disordine o a puntate è cosa buona, giusta, e cervello-friendly.
Spezzettate, andate, tornate. Liberamente.
1. Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt
Quindi,
e , eccolo qua, il numero dove rifletto su malinconia e Tropici.Sono stati quattro, i miei viaggi in Giappone e a Tokyo, tutti quando vivevo a Bangkok, una volta con il mio ex (nome in codice: Partigiano Musone, come un personaggio di Guccini & Macchiavelli, per la sua contagiosa allegria, tipicamente viennese) e le altre volte da sola.
In realtà, quello che mi ha ricordato la newsletter di Daria era stato quanto mi avesse fatto riflettere arrivare in un clima temperato dopo anni di Tropici, estate, monsoni, hibiscus:
la primavera e la pioggia e il freschetto e i ciliegi delicati, i fiori piccoli, i tetti scuri, i treni veloci e silenziosi, soprattutto, ecco: il silenzio.
Quanto mi aveva fatto riflettere, tutta quella tranquillità, su com'era la mia vita in quegli anni. E la mia vita, in quegli anni, si poteva riassumerla in una parola: caciara.
Lavoravo coi bambini di tre anni, ero in contatto con la mia bambina interiore come mai prima e mai dopo; non vedevo un inverno più lungo di due settimane da almeno 4 anni, perché in Sudamerica lo avevo dribblato, eccetto nelle Ande dove la loro estate per me è una roba gelida, e perché in Asia orientale (Corea, Giappone, Cina) ci ero accuratamente andata sempre almeno in primavera.
E quindi, mi ero trovata a scrivere sul mio diario, durante il primo viaggio in Giappone:
qui ho spazio per la mia malinconia.
Mi ero lasciata da poco con Partigiano Musone, ero una crisalide che era stata single l'ultima volta a 25 anni, che di anni in quel momento ne aveva 32.
Avete presente quanto si cresce tra 25 e 32 anni? Un sacco.
E quindi, quando ti lasci, oltre che processare la rottura devi riprocessare la domanda: io chi sono? Io cosa voglio? Cosa mi rende felice? Cosa importa per me?
Dice: ma quello a ogni rottura dopo una cosa seria con convivenza e tutto, dai.
Sì, ma io credo che c'entri tanto anche quanto eri giovane all'inizio di una storia, e dunque quanto tempo avevi avuto per essere te stessa da sola, prima di essere te stessa in coppia.
Poi vabbè, il Partigiano Musone oltre che Musone era pure un gran manipolatore. Lo aveva imparato a casa sua, in una delle famiglie più agghiaccianti con cui abbia mai interagito in vita mia. Quando vivevo a Vienna e andavamo a trovare i suoi genitori nel weekend, a mia madre dicevo che andavamo dalla famiglia Addams. Per dirvi il livello di asburgica allegria. Tipo, allegria livello Michael Haneke. Chi conosce un minimo Vienna e l'Austria capirà perfettamente il marchio specifico di cupezza, negatività e grigiore a cui mi riferisco. Se vi serve un altro riferimento culturale: l'allegria di Thomas Bernhard.
Ma. Torniamo ad altre latitudini sentimentali, più adatte a me.
Quello che io ho sentito spesso nei paesi più tropicali, come lo è molto sudest asiatico, ma come lo è anche, ad esempio, la Colombia, è questo: lo spazio per il lato-ombra dell'essere umano è più ridotto.
Del tipo: rega', già è abbastanza duro stare al mondo, per favore non appesantiamoci facendoci pipponi esistenziali e balliamo (in Colombia) o magnamo (Thailandia.)
Ovviamente, lungi da me ridurre i due paesi al ballare e al mangiare. Chiaramente no. Però, è un aspetto culturale forte, per la Thailandia che conosco abbastanza lo posso dire: non lamentarsi, non arrabbiarsi, sorridere, non fare critiche esplicite, non parlare dei problemi, che problemi?, non essere triste, ma che avrai mai da essere triste? Mai pen rai, non preoccuparti.
Mi sono spesso chiesta se il non esibire esplicitamente malinconia o tristezza sia (anche) una strategia di autodifesa emotiva e sociale in luoghi traumatizzati, come la Colombia, che però nella sua cultura esprime sacche di malinconia, o la Cambogia; o se sia forse più questione culturale, in luoghi come la Thailandia, ad esempio. Come eccezione a ciò che sto dicendo, mi vengono in mente il Brasile con la sua saudade, e il Messico, con la sua vena dark, il culto di Santa Muerte, eccetera.
Con questo non sto ovviamente dicendo che in questi paesi nessuno sia mai triste, naturalmente no: sono la prima a inalberarsi quando sento dire "in _______________ sorridono sempre, non hanno niente e sono felici".
Certo che non sorridono sempre.
Nessuno sorride sempre.
La questione è piuttosto: quanto apertamente si parla di quei momenti in cui NON si sorride per un cazzo?
Dal Sudamerica, negli ultimi anni, sta arrivando una carica di donne che parlano di cose oscure, oscurissime, e io ve ne parlo spesso — ma non è certo quella, l'onda della musica pop che scala le classifiche.
Bangkok è una specie di luna park, per il resto del mondo: feste, donne (ancora oggi) alcol, spa, hotel incredibili, bar sui tetti dei grattacieli.
A Bangkok, la religione è un sincretismo di buddhismo e edonismo, e l'obiettivo principale di molt3 è stare bene, sabai sabai, si dice lì, qualunque cosa questo significhi per te.
E quindi... Cosa succede, se non sei sabai sabai per nulla? Se stai affrontando una rottura, una perdita, un dolore, se sei arrabbiata e con ragione — dov'è la tua collocazione a Bangkok, fuori da casa tua?
Io mi ero rifugiata nelle scuole di yoga, nei templi, nel centro culturale per donne aperto da una mia amica colombiana, una che diceva molto giustamente che in una città costruita intorno ai bisogni dei maschi serviva uno spazio accogliente per il femminile; nei caffè tranquilli lungo i khlong, i canali, e lungo il fiume. Nel mio giardino.
Il silenzio e la riflessione hanno poco spazio per esistere, a Bangkok. Devi andare a cercare spazio negli interstizi, sapere dove vivere la tua malinconia o riflessività. Quest'anno ho visto che la gentrificazione si sta mangiando molti dei miei vecchi spazi di quiete vicino al fiume, ma ne restano altri, ne sono certa, che io non conosco ancora.
La Bangkok dei vicoli dove passano quasi solo i motorini, dove resistono le vecchie case tradizionali di legno a due piani, lo spazio per ascoltarti lo devi cercare lì. Oppure nei soi dei quartieri ricchi, dove però sarai circondata solo da muri di cinta, e niente più.
Quando ero arrivata a Tokyo avevo molto bisogno sia di silenzio che di spazio per i miei pensieri, e lo avevo trovato, nel mezzo delle moltitudini di una delle conurbazioni più popolose del pianeta.
A Tokyo un sacco di gente fa le cose da sola, persa nei propri pensieri.
A Tokyo esisteva la primavera, e dopo anni senza, mi ero resa conto di quanto fosse bella la primavera, di quanto potesse essere piacevole un libro letto in un caffè, mentre fuori piove, riparandoti non dal caldissimo, ma dal freschetto, con un ombrello in borsa e le scarpe ai piedi, perché basta l'ombrello, non serve andare in infradito, perché non si allagherà tutto per la pioggia.
Spesso sento gli europei descrivere Tokyo come un assalto ai sensi, all'arrivo: per la folla, per l'estensione, per i caratteri che non si sanno leggere, per il fuso orario.
Arrivando da Bangkok, per me Tokyo era stato un posto incredibilmente rilassante: tutto funzionava, nessuno urlava, nessuno cercava di vendermi nulla, nessuno suonava il clacson, non c’erano tuk-tuk, i taxi non si fermavano, nessuno mi chiedeva where you go?. La folla c'era, ma non faceva casino. E io avevo più spazio per sintonizzarmi, e ascoltare me stessa.
Per me, che avevo bisogno di tranquillità e vivevo nella città più cialtrona e caciarona del sud-est asiatico, Tokyo era stata pace e serenità. Mi aveva calmato in un periodo difficilissimo. E infatti ci sono tornata più volte possibile, a cercare quella sensazione di pace e accettazione della me intera, che avevo poi avuto qualche tempo dopo anche in Corea. A Seoul ero così in pace, incredula e innamorata della primavera che avevo mandato questa foto di maniche lunghe e sciarpa alle mie amiche thai:
La domanda che mi sto facendo ora, naturalmente, è: chissà come sarebbe, arrivare in Giappone o Corea dall'Europa, dove di nuovo, vivo in una città caciarona — perché preferisco vivere nelle città così, quando sto bene?
Sarei sommersa dal non saper leggere le cose? Dalla folla? Da quanto poco inglese parla la gente? O sarebbe un ritorno felice, come lo è stato a Bangkok?
Perché alla fine, che sia Asia orientale o sudest asiatico, la libertà che ti danno società sicure e tranquille come quelle coreane e giapponesi, ma pure thai, è una delle cose che ti ha dato lo spazio per tornare ad essere te, praticamente senza alcuna minaccia percepita negli spazi pubblici di Bangkok, Tokyo, Osaka, Seoul, Busan, Kuala Lumpur, Singapore,
città di templi e grattacieli dove una donna bianca non attira praticamente l’attenzione di nessuno, o quasi, non è forse l’essere inosservate e sicurs una delle loro attrattive principali?
Una cara amica, giornalista francese in giro per l’Asia da una decade, dice sempre che le donne occidentali a piede libero da sole per l’Asia sono una specie a sé: attirano poco l’attenzione, si godono la loro invisibilità, ascoltano, osservano, imparano, prendono appunti sui comportamenti occasionalmente aberranti di alcuni dei loro corrispettivi maschili nello stesso spazio culturale. Insegnano in giro per le scuole internazionali, per le università, nelle ONG, gustandosi il positivo del non attirare l'attenzione: l’essere libere, perché a nessuno importa cosa fai. Gli uomini occidentali, diciamolo in maniera delicata, guardano altrove — non tutti, ma tanti. Molti uomini asiatici non sanno bene in che modo approcciarsi a te. Il risultato è una forma di estrema libertà, che devi stare bene per vivere appieno, se no diventa isolamento. Me lo ricordo molto bene. Lei dice sempre che prima o poi si dovrebbe fare un documentario sulle occidentali che lavorano sole in Asia, e io sono abbastanza d’accordo.
I mesi passati di nuovo in Asia all’inizio di quest’anno, nonostante si siano conclusi malamente per ragioni familiari, mi hanno ricordato che per me sud-est asiatico e Asia orientale — sono anni che vorrei tornare a Taiwan — sarà sempre un luogo speciale. Non so se ci vivrò mai di nuovo. Ma quindici anni fa non sapevo che ci avrei mai vissuto, quindi non importa. La vita ti stupisce sempre.
Manifesti e caroselli
Due volte al mese, il mio obiettivo è aiutarvi ad aumentare la diversità culturale presente nelle vostre vite.
È un modo diverso e gioioso di fare politica.
Se il diverso lo ascolti, lo conosci, lo leggi, tenti di capirlo, da una posizione di apertura e curiosità, apprendendo dai e dei modi altrui di stare al mondo, è più difficile essere chiusi e bigotti. E non per forza questa apertura la si deve cercare attraverso il viaggio, che non è alla portata di tutti.
La cultura può permettere di aprirsi anche a chi non può o non vuole muoversi.
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2. I libri del mese
Spostiamoci di longitudine, per i consigli del mese. Andiamo in Turchia (eh, lo so. Di nuovo.)
L’isola degli Alberi Scomparsi, The Island of Missing Trees, Elif Shafak, BUR. C’è Elif Shafak che fa parlare un albero di fico innamorato di un umano. Tra la Cipro degli anni 70 e la Londra di oggi, muri, buffer zone, confini, guerre, amore, contrasti, migrazioni volontarie e forzate, persone che non possono amare come sentono, e molto altro. Io non so, l’ho letto un po’ buttata su un tetto di Toulouse, un po’ nel giardino della basilica di Saint-Sernin, sempre lì. Il mio primo viaggetto da sola dopo due anni di lavoro corporate, pestilenza e perdita, dove mi ero prosciugata lentamente, il primo passo per tornare a me stessa. Per me questo libro era stato linfa. Dateci un’occhiata, poi, come sempre, vedete voi.
Il Solco, Le Sillon, Valérie Manteau, L’Orma. La recensione linkata l’ho scritta io, anni fa. Da allora, ho prestato e regalato il libro a chiunque andasse a Istanbul dopo che gli avevo fatto una testa per anni, perché la Istanbul descritta da Manteau, anche se successiva a livello cronologico, a livello sociale è la stessa città che ho vissuto io, dove io ho iniziato a diventare la me di oggi. Cito me stessa dalla recensione: “quello con Istanbul è anch’esso un rapporto d’amore importante, che plasma la vita della protagonista mentre questa assiste al ripiegarsi progressivo della città su se stessa, senza mai avere il coraggio di lasciarla. Il lettore accompagna la narratrice nelle sue passeggiate, e nell’esplorazione dell’affascinante mondo dei disobbedienti e dei resistenti turchi, armeni e curdi che animano la città nonostante tutto, nonostante la piega sempre più illiberale presa dallo stato centrale.”
Il consiglio di archivio del mese è Città Sola, Lonely City, di Olivia Laing, Il Saggiatore.
Io credo che sia uno dei libri più intelligenti e nutrienti che abbia letto negli ultimi anni — meraviglioso, infatti sono andata a cercare gli altri saggi di Laing, subito, quello sui giardini, e quello sui corpi.
Un excursus nell’arte, nella musica, nel mondo culturale di New York e non solo;
una condivisione di uno stralcio di vita e della fecondità che si può trovare in una condizione tipica dei nostri tempi, e di cui si parla poco perché già trovarcisi, spiega Laing, è per molte persone fonte di una sensazione di vergogna: la condizione della solitudine.
A me ha fatto pensare al mio arrivo a Istanbul. Avevo 24 anni. Mi mancava mio padre, non parlavo una parola di turco, non avevo amici, non avevo una lira, non avevo una casa. Conoscevo solo la couchsurfer che mi ospitava, una giornalista lesbica, che mi portava in giro per la sua Istanbul alternativa di musica indipendente e arti visive, alle manifestazioni commemorative per Hrant Dink, che mi ha insegnato a pronunciare la i senza puntino che vedete ovunque sui cartelli, prima che iniziassi a imparare il turco. Che aveva amici chiamati Devrim, rivoluzione, o Ekim, ottobre, come lei figli di persone che negli anni 80 facevano politica, e avevano rischiato grosso.
Questo incontro primario ha plasmato il resto della mia vita a Istanbul, e probabilmente di tutto ciò che l’ha seguita, aprendomi al mondo che è oltre la Istanbul da cartolina o da soap.
Stare sola è un’arte, come dice il titolo del libro. Può essere doloroso, ma può essere anche uno spazio di protezione. Questo libro per me è tutto una sottolineatura, ed ha anche fatto da scatola cinese, perché ho scoperto artisti e libri da leggere di cui non avevo mai sentito parlare. Da non aver mai letto nulla, ad essere mega fan di Olivia e voler leggere tutto.
3. Una cosa da ascoltare
Uno degli ultimi episodi di Globo, il podcast del Post che ascolto forse con più costanza, parla di Cipro.
Vi lascio il link perché, come dice Cau nel podcast stesso, mi rendo conto che è una storia davvero poco conosciuta e che ha conseguenze palpabili ancora oggi. Ho pensato fosse un buon momento per lasciarvelo e portarvi un po’ per il Levante — perché il libro di Elif Shafak che ho citato qui sopra parla proprio dell’accaduto del 1974, tra le altre cose.
4. Logistica: LinkedIn, materiali gratuiti per voi, Instagram, il link a Notes, il link all’archivio
Ci vediamo su LinkedIn? Sono coach certificata ICF di Neurolanguage Coaching®,e scrivo su LinkedIn di quello che faccio fuori da Catrame, quando il tardocapitalismo impone che lasci i libri e la contemplazione delle nuvole, e produca (e che lo faccia online e da sola, perché sappiate che le scuole di lingue, in media, trattano non male gli insegnanti: li trattano malissimo. Li sottopagano e gli fanno pure usare libri e metodi che gli fanno cagare. Quindi, io ho detto basta, ed eccoci.) Qui, qui, e qui, potrete leggere meglio di che si tratta, e di come funziona la faccenda.
Sul mio profilo LinkedIn troverai un sacco di roba in archivio che ti sarà di aiuto, ed anche: vai qui e scegli la tua risorsa gratuita.
Inizia a sviluppare il tuo inglese parlato in autonomia; oppure, vai di self-coaching e vedi se è davvero la lingua inglese a bloccarti… O qualcos’altro.
Su Instagram sono @migrabonda. Lì, cazzeggio puro, quando mi gira.
Se leggete usando la app di Substack, possiamo seguirci anche sulla sezione Notes, dove scrivo cose molto più interessanti che su Instagram.
È la prima mail che ricevi? Qui l’archivio di tutte le altre!
5. Alla mia amica Clelia a Bahia hanno detto questo
L'amico è quello che conosce la tua paura.
Glielo aveva detto un certo Xande, seduto di fianco a lei su uno di quegli autobus che prendi in Sudamerica, che se durano cinque ore dici, ah, vabbè, quindi un attimo.
Io, devo dire, sono abbastanza d'accordo con Xande. E aggiungo che l'amico, l'amica, è quella persona che conosce la tua paura, e poi viene magari pure con te dentro la selva oscura, che in due fa un po' meno paura.
Ad avercene.
Dovrei fare un numero su quella forma di amore che è l’amicizia quando è salda e autentica.
E anche per sto giro, abbiamo finito. Chiudo qui, che è già un papiro.
Vi mando un abbraccio grande.
A tra due settimane, e grazie di esserci.
Forse dopodomani posso togliere le stampelle.
Pao
Hai fatto viaggiare anche me questa mattina grazie
Molto bella questa edizione. Per altro sto per andare, per la prima volta, in Giappone. How appropriate!