Ben ritrovate e ritrovati!
Questo mese usciamo di sabato perché… boh. Perché sì.
Questa newsletter, essendo il mio spazio di cazzeggio, a volte è un po' scontrollata. È nata apposta.
Riflessioni e link:
Bangkok, di ossigeno e contenimento
Una cosa da guardare
I libri del mese: Colombia e un’intrusa italiana
Quindici coltellate: da ascoltare
Regalini e link all’archivio
La poesia in prosa di un giovane poeta colombiano a Milano
Tempo di lettura: 16 minuti circa
1. La libertà appassisce dove inizia la sicurezza?
Secondo un graffito che vidi anni fa a Berlino, sì.
Gli ultimi giorni a Bangkok li ho passati col cuore delicato del premestruo, a salutare le amiche e poi anche la città, zona per zona.
Si dice che il corpo ricordi, ed è incredibile, a volte, quanto questo sia vero, nel bene e nel male.
Quando sono andata a salutare le mie ex colleghe, che sette anni dopo sono ancora nella mia vita e che posso dunque chiamare amiche senza esitare, ho compiuto gesti che il corpo ricordava.
Mi sono preparata per andare allo Skytrain; l'ho preso; sono poi scesa alla solita fermata dove ho lavorato 4 anni; ho preso il mototaxi verso la destinazione di sempre, tutto col pilota automatico, anche dopo 7 anni che non lo facevo.
Mentre le vie nevralgiche della città cambiano in continuazione, sotto la spinta della speculazione e del riciclaggio di denaro, i soi, i vicoli laterali, sono meno dinamici.
La linfa che scorre veloce sui grandi viali di Bangkok, affollati di taxi, metro, sopraelevate e chi più ne ha più ne metta, nei soi diventa più spessa, scorre più lentamente. E con lei, rallenta il ritmo del cambiamento nei soi.
Le piccole vie intorno alla mia vecchia scuola non hanno marciapiedi. Sono costellate di ville candide, circondate spesso da giardini, popolati da qualche cane di vario livello di ferocia, e da moltissimi alberi: manghi, frangipani, acacie. Agli angoli delle strade i banyan: alberghi di spiriti, rivestiti e coccolati come gli alberi divini che sono, abbelliti con fiocchi, statuine, incensi ed offerte. I rami degli alberi spesso sconfinano sulla strada, a dare ombra a quei (pochi) umani scriteriati (io) che, invece che muoversi in motorino o in macchina, si ostinano a camminare.
Il traffico è poco, il silenzio tanto, l'umidità forte. Si sentono i gechi, a volte le rane, tanti uccelli. Al crepuscolo, profuma tutto.
Quando ho salutato le mie amiche era il crepuscolo. Una cosa che impari stando ai tropici è la velocità del crepuscolo — in Europa, in estate, il sole ci mette una vita a tramontare davvero. Il sole va oltre l'orizzonte, ma la sua luce resta a lungo, e noi restiamo in spiaggia con quella luce fino a tardi, fino alle nove e mezza, anche: è una delle mie fonti di gioia estive, a costo zero. Basta sedersi e sentire.
Qui, no.
Qui il sole cala, poi diventa tutto di fuoco e poi azzurro ed infine indaco, tutto nel giro di... Mezz'ora? Quarantacinque minuti?
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Io ho vissuto quest'ora dorata e poi rosa e poi indaco da sola. Avevo bisogno di un pomeriggio per me, dopo mesi di viaggio in coppia, in cui gli spazi sono ridotti, e si sta sempre insieme, o quasi.
Ho camminato piano attraverso i vicoli verso l'arteria principale, e quando ci sono stati anche 43C, di giorno, a quell'ora è letteralmente un florilegio di profumo di fiori. Io mi sono un po' commossa, perché mi sono resa conto di quanto ancora oggi, in quel quartiere, io mi senta al sicuro.
E di quanto, a Bangkok, io abbia imparato a passare tempo di qualità e di presenza con me stessa, da sola, cosa che per me rappresenta una specie di super potere.
E la cosa interessante a cui ho pensato è stata: quanto spesso la sensazione di sicurezza va a braccetto con quella della contenzione, se non della gabbia?
Io oggi mi sono sentita sicura, portata, nel quartiere dove lavoravo. Ma per anni, lavorare così tante ore, in un contesto conservatore, in un paese governato da una giunta militare, è stato una gabbia. Io me lo ricordo e se lo ricorda l'amica giornalista che lavora sulla Birmania, quella di cui vi parlavo qui. E per questo non idealizzo la mia vita passata qui, anche se è così meravigliosamente comoda. Perché io lo so, che non avrò mai più una piscina (però ho la spiaggia. Senza plastica abbandonata quasi da nessuna parte.)
La mia vita adulta è stata quasi tutta una ricerca di equilibrio fra bisogno di libertà e bisogno di sicurezza, e ho quasi sempre sacrificato la seconda per la prima — l'ultima volta a Barcellona, quando ho lasciato un contratto a tempo indeterminato per mettermi a lavorare da sola, pur di tornare a fare un lavoro che avesse del senso per me, pur di avere controllo sul mio tempo, pur sapendo che non posso contare sul lavorare con le scuole di lingua locali, pur sapendo che avrei visto il computer molto più di quanto sia abituata a fare, pur sapendo che all’inizio si guadagna poco. E che ci si fa un mazzo così.
A Bangkok il lavoro aveva molto senso — lavoravo a scuola, mi distruggeva fisicamente ma a livello umano guardare i bambini sbocciare era bellissimo— ma era il contesto, a essere difficile. Non ero libera. Non potevo truccarmi. Non potevo mettere orecchini, anelli, braccialetti. L’ultimo anno che era lutto di stato per il re appena deceduto, avevo dovuto andare a scuola in maglia nera per l’intero anno accademico — non nego che almeno era comodo, ecco, e comunque sono milanese, il nero mi sta bene, però ecco. Voi ve lo sapete immaginare, andare in maglia nera per un anno perché è morto Mattarella? No? Tutta salute.
Avevo lasciato la Thailandia satura, sbronza di retorica monarchica, militari prepotenti, censura, autocensura. Sono venuta via che abbassavo la voce per parlare del re, e nemmeno me ne accorgevo.
Quando mi sono trovata con un’amica italiana, anche lei ex Bangkok, in un bàcaro veneziano ad abbassare la voce mentre parlavamo del re, mi sono resa conto di
quanto può essere potente l’autocensura che ti cresce dentro, quando per anni vivi in un regime. E io ci sono stata solo quattro anni. Immaginate chi ci passa tutta la vita.
Quanta libertà resta nel tuo pensiero, se già la tua voce si abbassa dopo pochi anni?
Arrivare a Barcellona era stato atterrare in un livello di libertà mentale, sessuale (per tutti i generi e orientamenti) e politica che mi aveva fatto dire, wow, resto qui. Resto qui anche se non so come farò a non farmi sottopagare per sempre, col lavoro che faccio. Resto qui perché mi sento il femminismo intorno. Resto qui perché ci sono gruppi di uomini che parlano di mascolinità critica, perché ci sono tante piste ciclabili, perché posso camminare ovunque, perché hai lo yoga e il qi gong, ma hai anche tutto il mondo sudamericano dell’ayahuasca, della musica medicina, che a Bangkok non c’era.
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Ora, dopo sette anni qui, di cui più o meno tre di peste, reclusione e un lavoro fatto perché sicuro, ma totalmente fuori dal mio mondo, gli altri anni di lavori sottopagati e costanti decisioni da prendere, con la stanchezza che esse portano, attivismo politico iniziato e poi sospeso di nuovo per mancanza di neuroni, iperattività sociale e culturale, tornare a Bangkok è stato un bel contrasto.
Perché la sicurezza che vivevo come una gabbia, politicamente e socialmente, era stata anche sicurezza economica. E quella, semplicemente, dopo Bangkok non l'ho avuta mai più, come non la avevo mai avuta prima. Barcellona mi ha dato molte cose, ma la sicurezza e i soldi non sono tra esse. Però sono più felice di quando vivevo a Bangkok, anche se indubbiamente più scomoda, perché guadagno molto meno, e soprattutto, non ho più una piscina (sembro una bimbaminkia? Lo so. Il privilegio economico può renderti molto bimbaminkia. Parlate con un paio di expat in Asia e vedrete che è un processo quasi automatico, figuratevi che io ero pure una expat relativamente povera, in quanto “banale” insegnante. Figuratevi chi guadagna varie volte più di me.)
Mi ha fatto effetto tornare dove sono stata privilegiata nel modo più visibile possibile.
Quindi, perché resti a Barcellona, dirai, se rispetto a Bangkok è così scomoda? Ha tanto a che fare con le coordinate geografiche, con il clima, con la distanza da Milano e quindi dalla mia famiglia, e il mare. E il blu… e la legislazione. E l’essere in Unione Europea, che vuol dire che non mi serve un visto, se voglio stare sul lungo periodo. Che non sono esclusa dal poter comprare una casa, se lo voglio. E mille altre cose.
Però, e poi chiudo: il privilegio viene in tante forme. Un'altra sera bangkokka ero con una coppia di amici, italo-thai e pensanti. Stavamo bevendo un succo di mango per strada, e io ho detto, per consolarmi, perché mica morivo di voglia di tornare, per certi versi:
Beh dai, una cosa buona di Barcellona è…
E io stavo per dire il muoversi sulle ciclabili con bici di bike sharing comunali, senza essere uccisa; la quarantina di biblioteche della città; il capire l'alfabeto e le due lingue cittadine; il non aver bisogno di un visto; lo scrivere il diario ai tavoli da picnic pubblici della strada pedonale vicino a casa, nella città deserta agostana.
Il mio amico italiano ha completato la frase prima di me, invece, dicendo, la libertà di parola? Che è esattamente quello che avrei detto io sette anni fa.
Ed è questo il privilegio che ho a Barcellona, e che sembra ovvio ma non lo è:
scrivere e dire a voce alta quello che voglio, senza avere paura di niente. Lo dò di nuovo come un diritto acquisito, così acquisito che me ne dimentico. Anni fa, dopo aver vissuto in Turchia e Thailandia, dopo aver visto due colpi di stato, uno più violento e uno meno, non era affatto così. Ed ero incredibilmente frustrata. Più di ora.
Il corpo ricorda.
La mente, no.
Il privilegio è come l'acqua, ti accorgi che ce l'hai quando viene a mancare o quando cambia forma.
Prima il mio privilegio era il benessere materiale. Ora è il benessere mentale e più"politico-sociale-culturale", chiamiamolo così.
2. Una cosa che dovreste guardare
Quando avevo viaggiato in Italia a marzo, dal Vietnam, l'andata l'avevo fatta quasi senza dormire, sommersa di angoscia e mal di stomaco. Ho ascoltato un sacco di podcast, e ho guardato un film chiamato Fremont, che racconta la storia di Donya.
Afghana, ex traduttrice per gli americani, Donya arriva negli Stati Uniti come rifugiata, perché se fosse rimasta in Afghanistan, come donna e come collaboratrice degli americani, non avrebbe fatto una bella fine. Seguiamo la sua vita di giovane donna sradicata, fluttuante nell'aria, senza una famiglia né punti di riferimento precisi; la seguiamo nel suo lavoro, in una fabbrica di biscottini della fortuna, dove a un certo punto le viene chiesto di diventare colei che i bigliettini dentro i biscotti li scrive.
Mi è piaciuto molto. Credo che parli a chiunque di noi abbia vissuto un periodo come la straniera o lo straniero, costruendosi poco a poco un mondo intorno, andando sempre nello stesso bar, parlando coi nostri colleghi di lavoro. Mi sono piaciute in particolare le conversazioni di Donya con il suo capo cinese, e le perle di saggezza dispensate dal ristoratore afghano da cui va sempre a mangiare, quello nella foto qui sopra. Il film è del 2023, dovrebbe essere facile trovarlo online.
3. I consigli di lettura del mese
Solo due, perché sono andata lunga
La Mano Che Cura (La Mano Que Cura), di Lina María Parra Ochoa , fresco fresco di traduzione da Feltrinelli. Io lo volevo leggere da mesi, lo volevo leggere così forte che l’ho prenotato con un VPN da Phnom Penh, per ritirarlo al primo giorno a Barcellona. Per tornare in biblioteca, che per me è casa, e per ritornare nella lingua spagnola, che sta diventando casa pure lei (chi l’avrebbe mai detto, vent’anni fa?)
Sarebbe facile liquidarlo come il solito libro di realismo magico sudamericano, ma è molto di più.
Si parla di cosa succede dopo la perdita, quando ci si aggrappa troppo forte a ciò che è già andato.
Si parla di cosa succede durante la perdita, che a volte è dolorosa per chi resta, e liberatoria per chi lascia un corpo che è diventato gabbia.
Si parla di come, a volte, dopo la perdita ci sia anche libertà per chi rimane, ma che quella libertà la devi saper vivere, senza farti mangiare dai sensi di colpa. E di nuovo, quello impari a farlo se impari che amare, veramente, a volte è lasciare andare.
“Ana Gregoria mi prende le mani tra le sue. “Ascoltami, niña,” mi dice. “Una mano cura e l’altra uccide. Nessuna delle due è buona o cattiva, perché a volte guarire è una maledizione e altre la morte è benvenuta.”
Parla di come vi siano molte cose che non vediamo e non possiamo spiegare, ma che sentiamo egualmente. Vi lascio qui un’intervista all’autrice, in spagnolo, e anche un podcast, sempre in spagnolo. (Scusate, in italiano c'è davvero poca roba perché è appena uscito.)
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Una piccola parte di me crede che non sia affatto un caso, che non sia riuscita a leggerlo in autunno, quando volevo io. Ed è perché ne avrei avuto bisogno ora, di questa storia, guardando mia nonna fluttuare per mesi in una nuvola di Fentanyl da cui esce sempre meno spesso spegnersi piano, osservando mia madre e mia zia processare la malattia e la futura perdita. Della loro mamma… e del proprio status di figlie. Con enorme fatica. Perché non è ovvio, per le donne di una certa generazione, divenire ciò che sono, quando hanno passato tutta la vita dando cura al prossimo.
Città Sommersa, Marta Barone. [Lo so. Lo so che io di solito scrivo di cose di posti lontani.
Però: se il passato è una terra straniera, allora, questo libro viene da un luogo lontano. In secondo luogo… Io sono via dall’Italia da più di 16 anni. Per me, i libri italiani sono stati per anni il modo principale di non perdere la mia lingua, specie prima di venire a vivere in Spagna, trovare italiani ovunque, innamorarmi di un argentino e trovarmi di nuovo ad amare in italiano, per la prima volta dopo quindici anni e passa.]
Quindi, lasciate che esca dal seminato, e lasciate che vi consigli questo libro, che l’ho letto anni fa e me lo ricordo ancora. Era stato uno dei libri migliori che avevo letto quell'anno, nel 2020. Si parla di fantasmi di papà, bande armate, anni di piombo, Torino, fabbriche, sinistra extraparlamentare, e della ricerca di una figlia che ricostruisce la vita di un padre ormai scomparso. Vi lascio questa lunga recensione che vi racconta un po’ di più del libro, che a me era piaciuto molto, perché se Torino non è lontana, gli anni 70 lo sembrano sempre di più.
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4. Quindici coltellate: una cosa da ascoltare
A proposito dell'equilibrio tra libertà e sicurezza: io voglio un sacco bene a Salman Rushdie, a prescindere da eventuali polemiche che possano esserci state negli anni, anzi, anche un po' per quelle.
È da quando io ho coscienza delle cose, che c'è qualcuno che dice che Salman Rushdie deve morire: gli ayatollah iraniani, un sacco di gente che ascolta i di sopra ayatollah, tra cui uno sbarbato in America che meno di due anni fa ha detto, beh, ora che sono tutti distratti, ora che I Versetti Satanici sta tornando ad essere semplicemente uno dei tanti libri che ha scritto quest'autore, perché chi è nato ben dopo il 1989 che cazzo ne sa della fatwa, certo non se la ricorda, e ne sa solo se si mette ad approfondire della vita dell'autore,
ecco, adesso, ha pensato sto cagone, io Salman Rushdie adesso lo ammazzo davvero.
E gli si è buttato addosso in un auditorium, quando zio Salman stava per parlare dell'essere scrittore in esilio. L'ironia macabra di sta cosa, lo so.
Il buon Salman si è cuccato 15 coltellate all'addome, in viso, e ha perso un occhio.
In questa intervista del podcast della libreria Waterstones (ve lo metto anche in caso il cazzillo automatico di embedding di Substack non funzioni e il podcast non appaia qui sopra), Rushdie racconta non tanto dell'attacco quanto del dopo, che racconta nel suo nuovo libro, Knife. Si parla di convalescenza, di amore, della riconoscenza che prova verso chi gli è stato vicino, il rapporto con la moglie, l'agente, i medici; della gratitudine che provi ogni giorno al tuo risveglio, quando hai rischiato di non svegliarti più. Mille cose. Io l'ho ascoltato con piacere e ammirazione per il suo senso dell’umorismo nonostante tutto, insomma, è bellissimo. È lungo, ma si merita il vostro tempo.
Secondo me, a sentire questo podcast, capirete perché voglio bene al signor Rushdie. Magari gliene vorrete un po' anche voi.
Umorismo, cazzimma, creatività, riflessività, e riconoscenza dell'essere vivo ogni giorno, a un'età in cui, come dice nel podcast, in molti invece sono stanchi e amareggiati. Onestamente, come farebbe a non starmi tantissimo simpatico Salman, io non lo so.
E Khomeini sucasse, nell'alto dei cieli.
Volevo dirlo. Fa sempre bene.
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5. Due regali per voi, e il link all’archivio
Due volte al mese insieme con Catrame non ti bastano? Puoi anche seguirmi su LinkedIn… Anche se al momento sono in detox (sono veramente un po’ satura dei social, ma pure dei computer, quindi c'è poco movimento. Spero mi passi presto.) Cosa sarà mai sto Neurolanguage Coaching? In che modo lavorare con me è diverso da lavorare con un’insegnante random? se da tempo immemore vuoi parlare l’inglese, ma hai mille blocchi e non sai come fare e alla fine rimani sempre al palo… Sul mio profilo trovi un sacco di roba in archivio che ti sarà di aiuto.
Ho anche due regalini per voi, qui. Uno serve ad aiutarvi a iniziare a sviluppare il vostro inglese parlato in autonomia; l’altro invece per fare un po’ di self-coaching e vedere se è davvero la lingua inglese a bloccarvi, o se è qualcos’altro, sempre nello spirito che conoscere se stessi è cosa buona e giusta, nella vita.
È la prima mail che ricevi? Qui trovi l’archivio di tutte le altre :)
6. Poesia in prosa da Milano, via LOCOmbia
Jaime Andrés de Castro è un giovane poeta colombiano che vive a Milano, pubblicato da Miraggi Edizioni.
Jaime l'avevo incontrato anni fa, appena tornata dalla Thailandia, quando ancora non avevo deciso se vivere a Milano o a Barcellona, e vagolavo tra le due città senza sapere dove fermarmi. Nel mezzo, Marsiglia e il Marocco, e molta confusione.
Ciondolando, avevo conosciuto
a SLAM, il suo pazzo pazzo coworking (manca), e tramite vari giri milanesi — perché anche se vi dicono di sì, per fortuna Milano non è solo figa e fatturazione — ero finita a sentire Jaime, le sue parole che mi hanno incantato e ancora oggi mi incantano, perse in mezzo ai miei vecchi status facebook di quando lo ripostavo.L'ho un po' perso di vista e ritrovato nelle facebook memories, e mi sono resa conto che la sua poesia, ecco, mi manca.
Ma lascio la parola a lui.
Le parole che scrivo per te non sono mai abbastanza per me
Stella del Sudamerica.
Grande, enorme stella del Sudamerica che vegli sulle Pampas, sul rio Guaraní, sul Magdalena, sulla foresta amazzonica, sui tucani, sulle tribù indigene protette da piante secolari, disperse e sconosciute al mondo e noi curiosi, curiosi di vederle. Stella del Sudamerica che proteggi i bradipi addormentati, il Machupichu e il Salar de Uyuni, la cordigliera delle Ande, le tartarughe vecchie, anziane delle Galapagos, la terra dei Fuochi, Caracas e le isole bagnate dal mar dei Caraibi tutt’attorno, Stella che mantieni in vita le genti nelle carceri sovraffollate, i pazzi per le strade abbandonati come i rifiuti e presi a sassate peggio dei rifiuti, Stella che proteggi i corpi degli addormentati per le strade, di chi come dimora ha un marciapiede bagnato solo da piscio di cane stantio e con i cani malati di rabbia ci dorme per paura della solitudine e ci parla di notte come avesse trovato l’amore o il señor Presidente, aquí estoy para servirla.
Stella del Sudamerica che rendi folli le folle, che azzoppi i cavalli nelle praterie enormi nel cuore del mio Sudamerica stanco di fingere gioia e stanco, ancor di più, di fingere voglia di rivoluzione e speranza per il mondo intero, non li salveremo mai e soprattutto non ci salveremo mai noi, disgraziati, dominati, sconfitti dalla storia, privi di una nostra lingua, Stella nostra, Stella del Sudamerica, raccontami di come abbiamo perso il nostro idioma, di come abbiamo perso la nostra rotta e siamo diventati simbolo della sopravvivenza che ce la fa, della lotta fino all’ultimo secondo, del cuore oltre l’ostacolo, dimenticando che l’ostacolo più grande siamo noi, che siamo bravi a fabbricare ostacoli da vendere agli altri come orgoglio e pugni con cui battersi il petto per cantare col ritmo dei nostri cuori a voce sgolata le parole di morte e sacrificio umano dei nostri inni sacri di liberazione.
Vi mando un abbraccio grande.
A tra due settimane, e grazie di esserci. 🌸
Pao
La mia prima lettura del mattino. Ti ho letta nel mio piccolo studio davanti ai libri e con il caffè in mano. Sono entrata nel tuo mondo scorgendo tante cose che non conoscevo, grazie per i tuoi racconti e per metterti così in gioco, è una cosa preziosa.
Che belle queste riflessioni, Paola. Grazie che ci porti nella tua vita e nella tua testa e nel tuo cuore. Ci vediamo presto, spero.