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Riflessioni e link:
Siamo tutt3 bestiole tenere
I libri del mese
Logistica: LinkedIn, materiali gratuiti per voi, Instagram, il link a Notes, il link all’archivio
Come innamorarsi del mondo: un modo economico e difficilissimo, insieme
Tempo di lettura: 15 minuti circa.
Saltare i pezzi o leggere in disordine o a puntate è cosa buona, giusta, e cervello-friendly.
Spezzettate, andate, tornate. Liberamente.
1. Siamo tuttɜ animaletti dalla pancia morbida
Cominciamo con un dato fondamentale: il mio ex viennese era un po' stronzo.
Era una persona ferita, aveva avuto un'infanzia del cazzo, quel che volete: ma se i cazzi tuoi li fai pagare agli altri senza farti curare, sei un poco (o forse anche molto) stronzo. Questa cosa, a 26, 27, 30 anni, non mi era chiara. A 30 e qualcosa, la mia crocerossina interiore che giustificava tutto è deceduta, mi sono caduti i paraocchi, mi è cresciuta una crisalide intorno, ho iniziato a leggere di femminismo seriamente, e sono uscita dal tunnel umido che era diventata quella storia con questa chiarezza: che far pagare ad altre persone la tua infanzia demmerda non è giustificabile.
Mai cesura mi fece meglio in vita mia.
Oggi (qualche settimana fa, quando voi leggerete) sono arrivata all'aeroporto di Vienna. Non venivo qui da 6 anni; ho vissuto qui per tre anni, ormai 15 anni fa.
È molto interessante tornare in un posto che è stato casa, perché ti fa rendere conto anche di come sei cambiata tu, e devo dire che oggi ho avuto una sensazione mista a tornare.
Quando sono arrivata all'aeroporto ho visto un volo in arrivo da Bangkok. È incredibile come l'omino del cervello, come lo chiamo io, la mia voce interiore, anche quasi dieci anni dopo che mi sono lasciata con questo tizio ha detto dal niente, alla sola associazione di essere a Vienna, dove abbiamo vissuto tre anni, e aggiungerci lo stimolo “Bangkok” dove abbiamo vissuto un anno per poi lasciarci: se vedo Michael K., giuro che lo meno.
Quando si dice che il trauma rimane nel corpo… è proprio vero.
Mi ha colpito questa sensazione improvvisa di quasi riaccensione del trauma passato, perché comunque è una forma di trauma, una relazione che degenera verso tratti, diciamo, di abuso psicologico. Indubbiamente, è una cosa che rimane nel corpo: anche dopo anni di lavoro psicologico, filosofico, di meditazione, di ascolto, di processo.
Allora, io lo so che non va di moda più recitare JK Rowling per le sue posizioni da TERF sulla questione trans, però: lei in Harry Potter aveva creato questa cosa dell’expecto patronum: il pensare a qualcosa di molto molto bello, che ti fa sentire protetta, per superare momenti complicati, o difficili, o spaventevoli. Pensare a qualcuno che ti ama o ti ha amato, a un momento bello passato insieme, a scopo protettivo.
E niente, praticamente il mio expecto patronum è stata la lingua spagnola. Nello specifico, è stata la lingua spagnola con l'accento di Martín, che poi è quello di un sacco di altre persone che mi hanno voluto bene, che mi hanno accolta, che mi hanno fatto la torta di compleanno anche se non sapevano chi ero.
Sentire questa canzone, questa voce maschile che mi cantava nelle orecchie con lo stesso accento della persona che mi ama, che mi fa sentire a casa, tranquilla e protetta, ecco: credo che mi abbia calmato il sistema il sistema nervoso.
È stata un'esperienza molto singolare. Mi ha fatto sentire in maniera abbastanza chiara che la lingua spagnola ha un posto dentro di me, che sta diventando casa, e di questo non mi ero ancora accorta: è la lingua, tra le mie forti, che ho imparato per ultima. Quindi è interessante, no? Andare in un posto che è stato a casa tua in passato, di cui hai parlato e parli la lingua, e renderti conto che un'altra lingua, invece, anzi, un accento preciso, è già casa tua.
Un accento che ti parla di vino, cucina, casa, persone amiche, asaditos, e condivisione. Di cosa? Della vita. Loro dicono, che bello condividere.
Il mio cervello italofono restava in attesa di un complemento oggetto, anni fa, che non arrivava mai. Compartir. Punto. In Argentina, e non solo, perché me l’hanno detto anche altrove, in Sudamerica, compartir è bello.
Condividere cosa, dite?
Niente. Tutto.
Poi, dopo questo saliscendi di emozioni e ormoni che mi hanno fatto passare dal brandire una katana all’essere una gatta che fa le fusa nello spazio di una canzone di meno di tre minuti, sono arrivata in città.

La sera dell’arrivo, e poi il giorno dopo, li ho passati con due delle prime persone che conobbi e che mi adottarono subito, quando non capivo un cazzo di tedesco austriaco, e non conoscevo nessuno. Parlando con una delle due, le ho raccontato tutto quello che vi ho detto sopra, e mi si è chiarita una cosa che può sembrare ovvia:
io a Vienna non ci torno spesso perché è l’unica città che ho vissuto interamente con questo ex, e per questo, forse, il mio rapporto con lei è diverso che con le altre città. Non è esistita, una Paola single, curiosa di scoprire la città, a Vienna, e libera di essere cazzona e solare quanto voleva. Sono arrivata con un viennese scazzato e incazzoso che aveva come priorità principale quella di organizzarsi per andare via di nuovo, lontano. Abbiamo lavorato un botto, e poi, ce ne siamo andati.
Non ho mai avuto lo spazio e il tempo per rendere Vienna cosa mia. Molta città ha ancora addosso un filtro che faccio fatica a rimuovere, un filtro che non amo granché. E la mia reazione a questo filtro è stato l’evitamento.
Per questo, venire qui qualche giorno prima della festa di compleanno per cui sono venuta, da sola, e alloggiare da qualche parte, da sola, passando un paio di serate a camminare per la città da sola, a bermi una birra nel mio caffè-libreria preferito, da sola, a vedere una mostra di fotografia, da sola, andare a sentire una mia ex cliente di coaching parlare ad un panel alla Sigmund Freud Universität di trauma intergenerazionale, bermi un tè al caffè sopra la biblioteca centrale, dove ho bevuto un sacco di caffè negli anni, da sola, è stato importante.

Perché la differenza con la me stessa di 27, 28, 29 anni è che dopo una mazzata, e poi un’altra e un’altra ancora, in questo momento preciso della mia vita, sento la mia presenza come rifugio. E’ una pace di cui ho sentito spesso parlare. E a cui arrivi anche esponendoti al tempo da sola, al fare le cose da sola, che nella nostra società è cosa molto osteggiata. Essere rifugio di me stessa è una vittoria incredibile, per la ragazzetta inquieta e ipersensibile che sono stata in passato. Spero di poter mantenere questa sensazione, nel tempo.
Quando penso a me stessa quando vivevo qui, l’emozione principale è quella della tenerezza.
Ero abbastanza giovane. Ero fresca dei miei vari lutti. Erano i miei primi anni di lavoro. Ero un pesce fuor d’acqua: di italiani qui all’epoca ce n’erano pochi, e ho vissuto qui il periodo più lungo della mia vita dove l’italiano non l’ho parlato mai. Tutti i primi sei mesi, in cui lo parlavo solo su Skype con mia madre, o molto ripulito con gli studenti.
E allo stesso tempo, dopo la festa mobile che era stata la vita a Istanbul, era stato qui che avevo iniziato il processo di trovare cosa mi rende me via dagli altri, perché qui non era la Turchia: la gente passa molto più tempo in casa, ed è più difficile conoscere le persone. Ed è molto più facile sentirsi sole.
E allora, se devo fare da me, cosa mi fa stare bene, di cosa ho bisogno, cosa devo cercare per sentirmi bene da qualche parte?
(I libri e i film sempre, una scuola di yoga, una biblioteca se esistono le biblioteche pubbliche, una libreria indipendente con un libraio puccioso, un cinema per veri amanti del cinema, un caffè del cuore dove rilassarsi a guardare umani, se non hai ancora i tuoi umani dove ti trovi, una città dove posso camminare chilometri e spegnere l’inquietudine. Anche gli animali. Anche solo i gatti randagi di Istanbul, o i cani degli altri, al parco.)
Tutte caratteristiche basiche di ogni arrivo in ogni mia città, della mia ricerca e produzione di senso in nuovi luoghi. Una specie di protocollo di controllo dell’ansia e della paura che può fare un luogo nuovo dove non hai ancora facce amiche, che in effetti ho elaborato qui, per la prima volta.
Le mie amiche psy mi hanno chiesto spesso:
Di cosa hai bisogno?
Sembra una domanda facile, ma non lo è.
Credo che parte della risposta sia lo spazio per me, nel quale posso riflettere, scrivere, leggere e guardare storie, diventare amica di una città, e attraverso lo specchio dell’amicizia con quella città, capire meglio me stessa.
Lo specchio che mi tendeva Vienna, per molti anni, è stato velato di vapore e nebbia. Forse, questa volta, stando in città qualche giorno senza rutilare troppo, con spazi di silenzio, calma e solitudine, ho individuato parte del problema.
Una delle cose più belle di questi giorni è la sensazione di calma che mi accompagna, quella cosa che dicevo dell'essere rifugio di me stessa.
Credo di notarlo fortemente perché Vienna è stato un posto dove ero veramente molto inquieta, dove non trovavo leggerezza e pace, due cose che bene o male ora invece ho già dentro.
Alcuni giorni di più, altri di meno.
A voi… Cosa serve?
Manifesto
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È un modo diverso e gioioso di fare politica.
Se il diverso lo ascolti, lo conosci, lo leggi, tenti di capirlo, da una posizione di apertura e curiosità, apprendendo dai e dei modi altrui di stare al mondo, è più difficile essere chiusi e bigotti. E non per forza questa apertura la si deve cercare attraverso il viaggio, che non è alla portata di tutti.
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Ringrazio delle loro donazioni Mariachiara Montera (che sta cercando casa a Torino, tra l’altro, quindi se avete idee, conoscenze o bazze, diteglielo su Instagram); Martina M. e Daniele P. Lo scorso numero sul fare le cose anche avendo paura ha smosso un sacco di stomaci e menti, d quanto vedo.
Tra l’altro, ho pure scoperto che “fallo con paura” è una cosa che dicono i terapeuti ai loro pazienti. Hai capito? Io e il mondo degli psicocompari siamo sempre sintonizzati.
Ma andiamo avanti.
2. I libri del mese
Come Dividere Una Pesca, If an Egyptian Cannot Speak English, di Noor Naga, Feltrinelli. PIPPONE ALERT! Com'è possibile che io abbia sottolineato tutto quello che ho sottolineato qui? Perché a volte l'esperienza umana accomuna più di tanti altri fattori. Una ragazza americana di origine egiziana, piuttosto benestante (livello in America abbiamo una domestica messicana) va a vivere al Cairo dopo Tahrir Square e la primavera araba, e incontra un uomo che ha fotografato la rivoluzione, ma che dopo, durante la repressione che è seguita, è caduto nella coca, nell'indigenza e in uno stato di salute mentale e sociale che definire instabile è delicato.
Cominciano a frequentarsi, e il mix è ovviamente molto, molto complesso. Mi ha parlato perché per molti versi mi ha ricordato il mio arrivo a Istanbul: il trovarsi di botto senza una lingua in cui spiegarsi se si incontra una persona che però non parla l'inglese — il titolo originale del libro rende perfettamente l'idea, di nuovo un cambiamento che boh. La città che ti affascina ma che è anche uno spazio potenzialmente ostile, con tantissimi uomini in giro che opinano sul tuo corpo; la tua evidente estraneità e differenza – per Noor i capelli rasati a zero, per me i capelli lunghi, biondi, chiarissimi, che avevo all'epoca, e che rendevano la vita a Istanbul come camminare con un'insegna al neon in testa. Com'è trovarsi in una relazione dai tratti di abuso e non vederlo. Com'è provare a relazionarsi con uno che da un lato si guarda i film di Jacques Rivette, che legge le traduzioni di Foucault, ma che poi si porta comunque dentro tantissimo machismo mai processato perché mai riconosciuto, perché per lui non è machismo ma il naturale modo di esistere come uomo e relazionarsi a una femmina, oltretutto che viene da un altro mondo, che dici, ti voglio davvero bene, ma non ce la posso fare lo stesso. Davvero bellissimo, anche a livello di scrittura è molto originale. Mi è piaciuto davvero tanto. E poi, grazie a questo libro, ho scoperto che esiste il Graywolf prize per la letteratura africana, per facilitare la pubblicazione di nuovi autori e autrici africanɜ in inglese, sia originali che tradotti verso l'inglese. Ovviamente li seguirò per avere idee fresche di lettura!
Nota interessante: un sacco di persone su Goodreads sono turbate perché il libro dà spazio anche ai pensieri e sentimenti di lui, dicono, ma perché dà spazio a questo personaggio così brutto e cattivo? E il punto è proprio che non è solo brutto e cattivo, perché quasi nessuno lo è. Lo vedi solo se dai voce anche a lui e alla sua storia, che parla tantissimo anche ad esempio di differenze sociali e soprattutto di classe, quella cosa di cui non si parla mai abbastanza, che non va più di moda, e che lettori e recensori non considerano mai abbastanza nel loro inquadrare personaggi ed esperienze, cosa a cui allude anche l'autrice stessa nell'ultima parte del libro. Veramente, da leggere.
Mi sono dilungata perché questo mese ho solo questo libro da raccontarvi, come lettura recente. Questo perché da un lato sto lavorando e scrivendo un casino e sono un po’ stanca — a fine giornata mi sento svuotata e satura di parole, allo stesso tempo. E da un lato, sto leggendo in spagnolo un saggio difficile per lingua, per contenuto, per contesto storico, per numero di neuroni che richiede per essere seguito, capito, in tutte le sue 600 pagine di potenza, di quella genia, quella capa, che è Leila Guerriero. Vi lascio un pezzo dove potete leggere chi è lei e quanto è particolare quello che scrive. Mi ricorda Emmanuel Carrère, a volte, ma al contrario di Carrère che sta in bilico sulla linea tra giornalismo e autofiction, Leila è il giornalismo al suo meglio. Il libro che sto leggendo, e che vado a ritirare oggi per la terza volta in biblioteca (perché ogni copia ha una coda di prenotazioni lunga mesi, quindi non lo puoi mai tenere più di un mese), è La Llamada, un retrato, sulla ex militante montonera Sylvia Labayru, la donna che è nell’immagine di copertina questo mese, con sua figlia. Figlia lei stessa di militari, sequestrata da incinta, ha partorito sua figlia sui tavoli della ESMA, è stata violentata dai militari, e quando infine è stata rilasciata è stata ostracizzata dalla comunità di esuli argentini, perché chi sopravviveva era sospetto.
Guerriero ha intervistato lei e un sacco di persone del suo intorno, in diverse fasi della sua vita. Il risultato è un libro che è praticamente, non so, una macchina del tempo. Per me è faticoso, ed allo stesso tempo è un libro della madonna. Non è ancora stato tradotto, ed è talmente culturalmente specifico che non so se qualcuno lo tradurrà mai. In ogni caso, ve lo dico, anche perché mi sta occupando i neuroni da fine settembre, e so che tra chi legge ci sono persone ispanofone e argentine.
Il consiglio d’archivio: La Casa del Sonno, The House of Sleep, di Jonathan Coe.
Io ho letto questo libro anni fa, e mi ricordo che mi aveva molto affascinato questo mondo di studenti universitari inglesi squinternati. Probabilmente avrei voluto vivere come loro, mentre invece non ho fatto nemmeno un minuto da fuori sede, durante i miei studi — ma ho passato un sacco di tempo nelle case dei fuorisede che conoscevo a Milano, e poi, beh. Ho recuperato due settimane dopo la laurea, e ho finito per viverci, da fuori sede, hehe.
Tra alcune recensioni che ho letto per rinfrescarmi la memoria prima di consigliarlo, ne ho vista una scritta da una persona che l’aveva letto a 20 e qualcosa anni e poi riletto a 40 e qualcosa, trovandolo molto meno coinvolgente.
Non so se sarebbe lo stesso anche per me, ma i consigli d’archivio li faccio o scegliendo libri dove sono arrivata in ritardo, o libri che ho letto vent’anni fa e di cui mi ricordo ancora. Questo per me era stato decisamente memorabile. Poi, mi direte voi.
3. Logistica: quella storia del lavoro, link ai miei podcast/interviste, a Instagram, a Notes, all’archivio
Ci vediamo su LinkedIn? Sono coach certificata ICF di Neurolanguage Coaching®. Scrivo su LinkedIn di quello che faccio fuori da Catrame, quando il tardocapitalismo impone che lasci i libri e la contemplazione delle nuvole, e produca. Qui, qui, e qui, potrete leggere meglio di che si tratta, e di come funziona la faccenda.
Se vuoi scoprire se la cosa possa fare per te, inizia a raccontarmi qui.
Vorrei aprire uno spazio di gruppo, per rendere il coaching linguistico di inglese più economicamente accessibile. Se volete unirvi alla cricca, fatevi vivi. Secondo me ci divertiamo! Vorrei iniziare a gennaio, se siamo tipo 4-5. Chi viene? Scrivimi, che ti dico di più (sono una lavativa e non ho fatto una pagina per sta cosa. E poi, mi piace chiacchierare con voi 🤣)
Se vuoi ascoltarmi in podcast e interviste su lingue e viaggio in inglese, francese e italiano, i link sono qui.
Su Instagram sono @migrabonda. Temi tipo quelli di qui, più i meme. Io, ma più cretinina.
Se leggi usando la app di Substack, seguiamoci su Notes.
Qui c’è l’archivio di Catrame.
4. Sullo stare
“Sitting still is a way of falling in love with the world, and everything in it”
Stare seduti, fermi, è un modo di innamorarsi del mondo, e di tutto ciò che contiene.
Pico Iyer,
In un momento che sembrava me a yin yoga.
E anche per sto giro, abbiamo finito.
Vi mando un abbraccio grande.
Come sempre, grazie di esserci 🧿
Pao
Ho letto La llamada quest'estate, in vacanza. È stata un'esperienza potentissima, credo il miglior libro che ho letto quest'anno! Goditelo, è davvero un bel viaggio
Mi hai fatto pensare:
1. Che la meditazione mi ha insegnato a stare bene con me stesso
2. Che il livello successivo è stare bene con se stessi anche quando si sta male con se stessi, cioè accettarsi anche in quei momenti.