Eccoci qui, prima che tutt3 si sveglino.
Io sono in fase super creativa, una donna imbuto da cui passano storie in entrata e in uscita:
C'è stato un altro workshop di scrittura; c'è il quaderno di scrittura in francese della mia collega e penfriend Nadia Albinet — il link non è sponsorizzato, lo metto perché è un ottimo modo di lanciarvi a scrivere in francese, ed è a un prezzo super accessibile — che sto completando poco a poco; e c'è stato l’Asian Film Festival di Barcellona, dove in tre giorni ho passato 12 ore in sala, con buona pace della mia vita sociale.
E poi, mi sono messa a giocare con l’audio, a vedere come funziona quella storia dell’editing qui con voi che siete quelli del mio giardino, e che se mi cade il vaso mi tenete compagnia ugualmente senza pensare, madonna che scarsa, questa.
Alla fine, nessuna mai è nata imparata.
Non si arriva all'essere brave senza attraversare prima da una curva di apprendimento, detta anche l'essere una pippa mentre impari.
Non è che posso dirlo a chi lavora con me, e poi però fare finta che per me non valga.
A proposito delle situazioni scomode: settimana prossima darò un atelier di didattica agli insegnanti di francese qui a Barcellona, durante una conferenza dove verranno professori di francese da tutta la Spagna.
Mi hanno pure fatto una pagina dove sembro una persona seria. Spero che vada tutto bene, ma voi intanto incrociate le dita per me, che non ho mai fatto teacher training in vita mia… e lo farò per la prima volta nella mia terza lingua! Mi tremano i baffi!
Ma passiamo a noi.
Riflessioni e link:
E dove vai, se il punctum non ce l’hai?
I libri del mese
Una cosa da ascoltare, anzi due
Logistica: LinkedIn, materiali gratuiti per voi, Instagram, il link a Notes, il link all’archivio
Il poliamore linguistico secondo Jérôme Ferrari
Tempo di lettura: 15 minuti circa.
Saltare i pezzi o leggere in disordine o a puntate è cosa buona, giusta, e cervello-friendly.
Spezzettate, andate, tornate. Liberamente.
1. Di memoria, domande e altri sport ad alto rischio
Allora, che sia un periodo piuttosto oscuro lo abbiamo già stabilito un paio di numeri fa, cioè, Pollyanna non abita qui. Ci è chiaro e un po' la capiamo, Han Kang che ha vinto il Nobel e detto, cosa devo festeggiare comunque, con tutte ste guerre e genocidi (e un Trump alla Casa Bianca.)
Parimenti, mi viene anche da dire che se addirittura durante le guerre viste dai nostri nonni, o durante l'assedio di Sarajevo, o in mille altre situazioni oscure e dolorose la gente amava, faceva sesso e financo aveva bambini nel mezzo di cotanta distruzione, forse è anche una tendenza umana, voler vivere lo stesso nonostante le brutture.
E nonostante ci sia stata una tempesta a 350km da te che a) non è stata nella tua città per puro caso; b) in quella tempesta siano morte più di 200 persone.
E’ un attimo finire tutt3 come Han Kang e dire, cosa cazzo avrò mai da essere felice; allo stesso tempo, io sento sempre un po’ questa sorta di dovere, quasi, di vivere al mio meglio anche per chi non può farlo più; di ricordare chi non c’è più da una posizione di benevolenza e gioia, piuttosto che da una di mancanza e malinconia.
Ovvio che le due non si escludano. Ma è importantissimo, secondo me, rendersi conto che ricordare chi non c’è più, specie dopo il primo periodo di lutto in cui è normale sia molto duro, non per forza deve essere fatto con lacrime e dolore.
Possiamo autorizzarci a ricordarci degli esseri amati sorridendo e anche ridendo delle idiosincrasie che li rendevano umani.
Mio padre e il mio ex mi volevano bene e amavano vedermi ridere, felice, allegra. Novembre è il mese in cui mio padre è mancato, dicembre è il mese in cui il mio ex, che è mancato nel sole caldo di agosto, compiva gli anni. Era un sagittario mattariello.
Sono anche i due mesi più grigi e oscuri dell’anno;
quelli in cui trovare la propria estate, il proprio sole interiore, è più impegnativo e importante, ancora di più con anniversari così e con le tragedie contemporanee. Ma io mi ci metto di impegno.
A proposito di memoria, vi racconto di questo workshop a cui sono stata, che trattava proprio il tema della memoria familiare, per me un tema non per forza ovvio da trattare.
Il laboratorio, presenziale (yay!), era condotto dalla scrittrice argentina Mercedes Halfon, che oltre che scrittrice è curatrice artistica, tipo che collabora a cose bellissime tipo le mostre fotografiche della fondazione MAPFRE, uno dei miei spazi espositivi preferiti in città, e ha fatto anche cose al MALBA, a Buenos Aires.
Come mi capita spesso, quando si parla di famiglia, case familiari, radici e compagnia cantante, mi sono resa conto che, anche prima di lasciare l’Italia senza nemmeno sapere che non sarei più tornata a viverci, avevo comunque una tendenza all’essere volante, sradicata. Non ho mai ben capito perché.
Non so se c’entri che entrambi i miei genitori erano arrivati a Milano da un altrove, da Bergamo e da Roma, e che nessuno di loro due avesse un altro posto dove tornare, una casa ereditata in quell’altrove, in un ipotetico paesello, perché già i loro genitori avevano mollato tutto:
la cascina dove è cresciuta nonna longobarda, quella dove viveva quando portava fuori gli animali prima di andar a scuola la mattina presto, mia madre non se la ricorda nemmeno. Di nonno longobardo so veramente poco, e dovrei fare più domande. La cosa principale che so di lui è che era un cuorcontento, e che io sento di avere, vivaddio, ereditato questa sua caratteristica salvavita.
Nonna romana era arrivata anche lei da un altrove, scappata da Spoleto negli anni 30 con la scusa di studiare all’università, a Roma. Nonno romano era di Perugia. Negli anni 30, pure lui era in giro a fare l’architetto, a Tripoli, Asmara e a Addis Abeba. Una volta tornato in Italia, era andato a vivere a Roma perché Perugia gli stava stretta. (Se vi state chiedendo cosa avrà combinato mentre era in giro, me lo chiedo anche io, e spero niente di male. Ma non potrò mai saperlo. Come un sacco di altre cose.)
Non ho mai incontrato né l’uno né l’altra: li conosco solo attraverso le storie su di loro che mi ha raccontato mio padre, quelle che mi ricordo, perché ho avuto pochi anni a disposizione in cui chiedere e prendere nota.
Prima, ero un’adolescente troppo impegnata a definirsi con la distanza, che del passato non voleva sapere niente, sempre buttata a duemila all’ora verso il futuro e verso gli altrove ancora più lontani di questo mondo, appena ha potuto prendere un aereo da sola.
Tra i suggerimenti di questo mese ce n’è uno che ha a che fare proprio con le case di famiglia, quelle ereditate dai nonni, dove ci sono le storie d’infanzia tue e dei tuoi genitori. Voi avete un luogo del genere? Perché io no. Ed è questo, forse, ad avermi così colpito del libro che vi consiglierò.
Tornando al workshop con Mercedes, legato a questo: dovevamo tutti portare una foto, un oggetto, un ricordo dalla nostra casa familiare. E io non avevo niente. O meglio, avevo poco: due foto di foto nel telefono, e una sciarpa di lana di alpaca che avevo comprato in Bolivia per mia nonna, che le avevo spedito ormai dodici anni fa, e che era diventata la sua preferita. A giugno, quando è mancata, mia madre mi ha permesso di prendere la sciarpa e portarla qui a Barcellona. Lei la usava come una coperta, in realtà.

Non avevo nient'altro oltre a questo. E non ho pensato di scrivere a mia madre e dirle, mi mandi questa o quella foto? Perché è così tanto tempo che non mi siedo a guardare gli album di foto di famiglia (eh, lo so) che non avrei saputo nemmeno che foto richiedere. E perché… Non mi è venuto in mente che avrei potuto chiedere, finché al laboratorio non ho visto gente da posti molto più lontani di me mostrare scannerizzazioni di foto
spedite dalla casa della nonna nella Patagonia cilena, foto in bianco e nero di oceani, grappoli di sorelle che bevono mate caldo avvolte nei ponchos di lana, una scritta in bella grafia da nonna che dice, Ancud, Chiloé, 1957; un nonno ungherese dall’aria seria, con la pipa, che attende il bastimento per Buenos Aires al porto di Genova nel 1947; un ritratto di una nonna-diva catalana, regalato a un nonno in partenza per il militare negli anni 50; una foto sfocata, venuta male, scattata in Galizia, ma amatissima per i ricordi che porta; un nonno abbronzato, in pantaloncini, sorridente, a torso nudo in un giardino, con una bambina sulle spalle; due genitori giovani e militanti che invertivano la rotta intrapresa dai genitori negli anni 50, scattata nel 1976 all’aeroporto di Ezeiza, Buenos Aires, prima di prendere un aereo per il Brasile, e poi un altro per Madrid, per mettersi in salvo.
Ho spiegato la mia situazione dicendo, tenendo in mano il telefono aperto sull'unica foto di mio padre che ho lì dentro, scattata a Toledo nel 1972, mostrandola al resto della classe: di recente ho calcolato che ho fatto 17 traslochi da che avevo 24 anni, due dei quali intercontinentali. Per questo, ho sempre privilegiato altre forme di memoria: il racconto, il tatuaggio, il pensiero, un gioiello, a oggetti come le foto, che mi avrebbero appesantito, quando invece io volevo leggerezza e rapidità di movimento.
Mercedes mi ha guardato e mi ha detto, linda, direi che hai già un'altra storia da scrivere, oltre che quella della foto di tuo padre, quella di te e del tuo voler camminare nella sabbia lasciando le impronte meno profonde possibili. Ti suggerisco di prendere nota di quello che hai appena detto. E quindi intanto lo metto qui.
E poi ci ha dato venti minuti per metterci a scrivere. Avevo pensato di mettervi qui quello che è venuto fuori. Ma poi mi è successa questa cosa rarissima, un senso del pudore e della riservatezza. Di solito il mio senso della privacy è inesistente. Ma non questa volta. E probabilmente, non è un caso.
Mi sono molto emozionata, a questo laboratorio. Mercedes è stata bravissima a creare una situazione intima e di scambio. Ci sono state storie su storie, epiche, tenere, dolcissime, difficili. Tutto lo spettro delle emozioni umane, quindici persone e i loro antenati in una stanza.
Di nuovo, mi sono trovata a pensare una cosa che penso spesso. Molt3 mi dicono, ah, che vita che hai avuto, quante cose ti sono successe, ma la questione reale non è quello che ci succede, è quella dello sguardo.
Con che sguardo andiamo per le nostre vite? Perché la questione è saper vedere la meraviglia. E la meraviglia può anche essere nascosta nel quotidiano, le mani di un anziano; lo sguardo ambrato di un negoziante del Raval; il fruscio delle frasche sentiti dal balcone; una luce particolare, un gesto; labbra bellissime in metropolitana; il sole che si riflette nei capelli di una persona; occhi da bambino in un viso di pergamena; una persona seduta al sole in inverno, come un girasole.
Quando scattiamo una foto, ci sono lo studium e il punctum, secondo Roland Barthes. E la domanda che ci dobbiamo fare, forse, è:
sappiamo vedere il nostro punctum?
Quanto sono preparati, i nostri occhi, alla bellezza e alla meraviglia di una giornata qualunque?
Il prossimo lunedì andrò ad un altro laboratorio di scrittura con la scrittrice cubana Elaine Vilar Madruga, di cui avevo consigliato un libro fenomenale mesi fa, qui. Nel workshop, prenderemo le nostre paure, i nostri mostri e i nostri demoni, e li trasformeremo in materiale per le nostre storie.
Una roba facile, insomma – ma direi che mi sento in buone mani.
Manifesto
Due volte al mese, il mio obiettivo è aiutarvi ad aumentare la diversità culturale presente nelle vostre vite.
È un modo diverso e gioioso di fare politica.
Se il diverso lo ascolti, lo conosci, lo leggi, tenti di capirlo, da una posizione di apertura e curiosità, apprendendo dai e dei modi altrui di stare al mondo, è più difficile essere chiusi e bigotti. E non per forza questa apertura la si deve cercare attraverso il viaggio, che non è alla portata di tutti.
La cultura può permettere di aprirsi anche a chi non può o non vuole muoversi.
Se volete sostenere il mio lavoro, dare valore al tempo che prendo per pensare e scrivere Catrame, e aiutarmi a pagare gli abbonamenti che pago per leggere e selezionare cose per voi, potete farlo con una donazione libera una tantum su PayPal, cliccando sul bottone qui sotto.
Grazie al Club dei Bookclub che mi ha ringraziato con una donazione per avere consigliato Han Kang in tempi non sospetti (prego! Un piacere!)
e a Chiara R., che mi ha donato di più dell'equivalente di un abbonamento annuale – quella cosa che non ho ancora avviato – al grido di è tutto bellissimo, tesora, ma fatti pagare che ci metti ore a scrivere tutta sta roba, e su.
Non ha tutti i torti, Chiara R. Probabilmente dovrei ascoltarla.
2. I libri del mese
The Yogini, di Sangeeta Bandyopadhyay, Tilted Axis Press. Non ancora tradotto in italiano, anche perché l’originale era scritto in Bengali e l’inglese è una traduzione. Una ragazza dell’India contemporanea, che lavora in una TV di Kolkhata e che crede di avere tutto sotto controllo, scopre che… Non è tutto così sotto controllo come credeva, dopotutto, quando si trova davanti un uomo, o forse la visione di uno yogi, sporco, vestito di stracci, che le fa paura e la affascina insieme, e che la osserva senza muoversi, né dire nulla. Da questa apparizione in poi, succedono molte e molte cose. Legami di coppia, famiglia, aspettative sociali, destino, niyoti, in Bengali, e l’eterno dibattito su destino, scelta, e libero arbitrio.
Que Reviennent Ceux Qui Sont Loin, I Giorni del Mare, di Pierre Adrian, Atlantide. Uno di quei casi di titoli che in originale erano poesia che dici, perché cambiarli? Il titolo francese significa, “Che ritornino coloro che sono lontani”. Si poteva abbreviarlo mantenendo il concetto, ecco. Comunque, un libriccino dove in teoria sembra che non succeda nulla, e invece succedono un sacco di cose, dentro il narratore, alle persone che lo circondano, alla casa e nel paese dove tutto si svolge. Seguiamo il protagonista senza nome nella sua prima estate di ritorno nella grande casa di famiglia in Bretagna, dopo anni passati a esplorare il mondo. Ci sono la nonna dai polsi fragili, lo zio buono e paziente adorato da tutti i bambini, i bambini all’avventura in campagna, le vicine ormai adulte, belle e sensuali. Mi ha raccontato un tipo di realtà di cui ho sempre sentito parlare ma che non ho mai vissuto: quella di chi va sempre in vacanza nello stesso posto, e che vede sempre le stesse persone, ogni anno. E poi, l’estate atlantica, dove serve il maglione la sera, dove dopo ferragosto arriva già il fresco, dove il cielo grigio acciaio è sempre dietro l’angolo. Molto suggestivo.
Il consiglio di archivio: Life after Life, Vita dopo Vita, di Kate Atkinson, che in Italia è pubblicato da Nord. Di nuovo uno di quei casi in cui arrivo ben dopo le palle del cane, una decade in ritardo, ma l'importante è arrivare.
A me è sembrato meraviglioso e incredibilmente immaginifico per la sua struttura.
600 e passa pagine da cui non riuscivo a staccarmi, e infatti, meno male che l’ho letto in vacanza perché così potevo leggere molte e molte ore al giorno, e immergermi quindi in questo mondo, che inizia nella campagna inglese nel 1910, e a seconda delle linee temporali prosegue per sessant’anni circa, o più. Io l’ho adorato, so che c’è gente che non è riuscita a finirlo. Per me è stato incredibile, e infatti mi sono già procurata il seguito.
Mi dicono ci sia anche una serie TV della BBC tratta da questo libro, pure lei molto popolare.
3. Una persona da ascoltare, in due posti diversi
Miranda July che parla di All Fours, A Quattro Zampe, con Vick Hope al podcast del Women’s Prize for Books, e dello stesso libro, ma anche di desiderio e sesso, con Esther Perel.
Entrambi gli episodi, se fossero stati libri, li avrei sottolineati in una percentuale imbarazzante. Miranda July a me piace tantissimo come regista, ma non ho ancora letto né All Fours, né i suoi racconti.
Da quanto ho sentito in questi due podcast e letto in questa recensione, dev’essere un libro pazzesco. Se siete intorno alla menopausa, se ci arriverete tra qualche anno, o se non entrerete mai in menopausa, ma ritenete che sia sempre bello conoscere la condizione umana in tutti i suoi aspetti, mi sa proprio che è da leggere. Se lo leggo, vi dico.
4. Logistica: LinkedIn, spazio capitalista, link ai miei podcast/interviste, a Instagram, a Notes, all’archivio
Ci vediamo su LinkedIn? Sono coach certificata ICF di Neurolanguage Coaching®. Scrivo su LinkedIn di quello che faccio fuori da Catrame, quando il tardocapitalismo impone che lasci i libri e la contemplazione delle nuvole, e produca. Qui, qui, e qui, potrete leggere meglio di che si tratta, e di come funziona la faccenda.
Se vuoi scoprire se la cosa possa fare per te, inizia a raccontarmi qui. Venti minuti insieme, nei quali tu mi dici di più della tua situazione, e io ti dico se posso darti una mano, o ti mando da chi lo può fare.
Sto mettendo in piedi uno spazio di gruppo per rendere il coaching più economicamente accessibile. Se volete unirvi alla cricca, fatevi vivi. Secondo me ci divertiamo assai.
Se vuoi ascoltare i miei podcast e interviste su lingue e viaggio in inglese, francese e italiano, i link sono qui.
Su Instagram sono @migrabonda. Temi tipo quelli di qui, più i meme. Io, ma più cretinina.
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Qui c’è l’archivio di Catrame.
5. L' amore linguistico non è esclusivo, secondo Jérôme Ferrari
Io, come sapete, vivo in Catalunya dove c’è tutto un ginepraio sulle lingue, con un discreto bagaglio di trauma dovuto al trattamento della lingua catalana da parte del regime di Franco.
Il risultato, visto da fuori, è che sono ancora così impegnati con la digestione di quello, e con la questione parliamo catalano / parliamo castellano, che a volte si perdono in discussioni manichee, e soprattutto, non si accorgono che fuori dalla loro bolla ci sono persone e paesi dove le persone parlano tre o quattro lingue molto diverse fra loro ogni giorno, e si portano a casa tutte le chip del casinò, invece che stare a discutere di quali sono le chip più belle, imponendosi per ragioni principalmente ideologiche di scegliere solo un tipo di chip.
Io, ovviamente, sono a favore del rastrellare tutte le chip possibili, e aprirsi più mondi possibile.
“Je n’ai jamais jugé que l’amour d’une langue devait empecher, devait etre exclusif au point d’empecher tout amour parallèle”
“Non sono mai stato dell’idea che l’amore per una lingua dovesse impedire, dovesse essere esclusivo, al punto di impedire qualunque amore parallelo”
Jérôme Ferrari,
scrittore corso e premio Goncourt,
ai microfoni di Radio France, dove raccontava del suo nuovo romanzo, Nord Sentinelle.
E anche per sto giro, abbiamo finito.
Vi mando un abbraccio grande. A tra due settimane.
Come sempre, grazie di esserci 🧿
Pao
Grande Jérôme Ferrari!
Beh, la chiusa della newsletter con la cit. di Ferrari è fantastica. 🤩