Sto cominciando questo numero in un giardino rigoglioso, nelle campagne cambogiane. Dieci quasi undici di sera.
Sono nascosta da due giorni qui per il capodanno buddhista, anche se è molto meno folle che in Thailandia, ma tant'è.
Nel mio giardino sento: il rumore della fontana. Il suono dei grilli. Delle rane. Dei gechi. Dei cani che abbaiano, lontano e più vicino. La musica pop khmer in lontananza, di chi sta ancora festeggiando. Le gatte in calore. Il rumore dei manghi che ogni tanto cadono dai due alberi di fianco alla casa, che fanno ombra al nostro tetto. Il clic del ventilatore vecchissimo che cigola sopra la mia testa.
Nel mio giardino vedo: due piante di banano, due di mango, una palma, due frangipani, rosa e bianchi. Un padiglione di legno, che ospita Buddha e Ganesha. I gattini che passano silenziosi. I fasci di luce del guardiano di notte che passa a fare il giro. Il tempietto per gli spiriti della casa. Arbusti ovunque, vasi appesi ai portici. Verde e fiori, ovunque.
Ben ritrovate e ritrovati!
Questo mese, riflessioni e link:
Cambogia, strategie per 43C, lo sguardo amorevole
Una cosa da guardare (anzi due)
I tre libri del mese: recente, archivio, rilettura
Tre cose da ascoltare
Dove altro trovarmi, una cosa spaventevole che ho fatto, lavorare insieme
Una poesia dal Kurdistan
1. La Cambogia e la strategia dell'ippopotamo
Come una fetta di prosciutto, schiacciata tra il pane e formaggio che sono Vietnam e Thailandia, con la Cina a fare da tostapane per tutti, c’è la Cambogia.
Insieme al Laos, uno dei due piccoli della regione; a differenza del Laos, un paese che mi è rimasto nel cuore, e dove avevo molta voglia di tornare.
Fuori dall’Asia, la Cambogia è famosa per: Pol Pot, gli khmer rouge, il genocidio, la gente uccisa perché portava gli occhiali o non sapeva arrampicarsi sulle palme, perché era monaco, perché aveva studiato, perché era imprenditore, perché era tutto tranne un agricoltore.
Angkor Wat, i templi, le cose belle vecchie di 1000 anni almeno.
Nel mio cuore, che la Cambogia l’ha vista per la prima volta nel 2008, invece, è rimasto questo:
l’apertura a parlare anche di quello che non va — cosa non ovvia in molta Asia; il cotone della krama ad asciugarti il sudore, che se è caldo sudi perché è caldo, se è monsone sudi perché è umido, comunque, suderai; l’emozione che provo ogni volta che torno ad Angkor e dintorni ad andare nei templi del circuito periferico, dove regolarmente non c’è un cane, perché sono “poco spettacolari”, dicono,
e meglio per me, che posso restare lì a mangiare pistacchi e banane sotto gli alberi a inizio o fine visita, riempiendomi di pace e bellezza, ascoltando gli uccelli, le cicale, guardando passare le farfalle, le lucertole e i gechi, i miei pensieri che come ogni volta che mi trovo in un luogo di vecchie pietre si connettono forte al cuore, immaginando come doveva essere quel luogo quando era vivo e popolato di persone proprio come me;
la quiete delle cittadine come Battambang, polverosa e con le strade del centro in terra battuta, 43 gradi a mezzogiorno, le ombre corte, che mi fa andare in giro canticchiando Morricone e pensando che Clint Eastwood potrebbe benissimo spuntare da un angolo, col poncho, ciancicando una sigaretta.
Kampot, i campi di pepe tutto intorno, da esplorare lentamente, in bicicletta.
I giardini silenziosi di certe ville di Phnom Penh, mentre fuori la città impazza, pazza, la più losca in assoluto di quelle qui intorno. Io me la ricordo come la capitale più messa male di tutta la regione, sinceramente. Ci vado tra pochi giorni, e spero non sia più così.
Chi ama un certo tipo di letteratura, sa anche che Allen Ginsberg è passato di qui negli anni ‘60, quando stava andando dall’India al Giappone, e che in quel viaggio scrisse uno dei suoi poemi di pagine e pagine, Angkor Wat — ve lo lascio da leggere qui (in inglese.)
Poi, certo. Non si può ignorare la storia brutale che c’è stata qui, ma per fortuna, i decenni passano, e adesso di gente coi capelli bianchi ce n’è molta di più. 16 anni fa mi aveva colpito questo: c’erano pochissimi anziani. E sapevo benissimo perché. [Gli khmer rouge, in tre anni e mezzo, avevano sterminato quasi un quarto della popolazione, per chi non ne sapesse niente.] La cosa, mi ricordo, mi aveva turbato molto. Questo adesso è cambiato. Sono passati 16 anni, le persone coi capelli bianchi sono molto più numerose e per fortuna, poco a poco, almeno a livello di psicologia di massa, ci si allontana un po' da quel che accadde qui con Pol Pot. A livello politico, purtroppo, mi pare di vedere che no.
E la strategia dell’ippopotamo? È la mia. Ogni giorno qui fa più di 40C: aprile è il mese più caldo, in un anno caldissimo. Già a febbraio avevo letto di numerosi incendi forestali da queste parti. Io ho, appunto, più di 15 anni più dell'ultima volta che sono stata qui, e ancora meno interesse di prima a stare negli ostelli coi ragazzini australiani con la canottiera della birra. Finisco, quindi, in vecchie ville meravigliose, con giardini, piscina, sculture, e persone che le curano amorevolmente.
A proposito delle cose belle dell’invecchiare che dicevamo nello scorso numero: ho mollato un po' l'estetica della scomodità, e a fine giornata, se ci sono 40C, mi metto in piscina a galleggiare per mezz'ora, o più. Dato che di giorno sembra di vivere in un phon, soprattutto finché si è lontano dal mare.
Poi ti avvicini al mare, e come sempre, lui è salvifico: brezza, aria, acqua, fa caldo, sì, ma non il caldo da sensazione termica 47C che ha fatto altrove. È un caldo amico, non un caldo che ti tiene in ostaggio.
È anche un prodotto dei quattro anni di vita bangkokka, la strategia dell’ippopotamo, diciamolo.
Martín in questo viaggio sta capendo molte mie idiosincrasie, dal togliere le scarpe in casa (quello però è ancora più antico, roba dei tempi di Istanbul) al cucinare con lo zenzero, a certe onomatopee di sorpresa che produco, al mangiare con forchetta e cucchiaio ma senza coltello, all'arricciare il naso se mi portano il pollo con ancora le ossa, in pezzi più grandi di un centimetro.
Io nemmeno mi ero accorta, tra residenza e viaggi, di quanto sudest asiatico quotidiano avessi interiorizzato. O di quanto mi illuminassi d'immenso sentendo i gechi e alcuni versi di alcuni uccelli la mattina presto.
Il bello di non viaggiare da sola, oltre che avere qualcuno che ti fa le foto decentemente, è che quel qualcuno può farci da specchio, farci notare cose che in effetti tu, da sola, magari non avevi notato. Viaggiare con chi ha verso di te uno sguardo amorevole — che sia un amore o un'amica — è spesso un modo di conoscere un altro lato di te, e di loro.
A me piace molto anche viaggiare da sola, e mi manca pure un po', talvolta. È un esperienza diversa, altrettanto bella, forse più complicata.
Sei allo stesso tempo proiettata verso l'esterno — vuoi conoscere persone, se sei me, perché nonostante la fatica che ti fa il mondo reale non sei ancora diventata misantropa — e allo stesso tempo sei molto connessa con te stessa, perché levarti dal quotidiano, quello fa.
Sicuramente è più sfidante: una può fare pure mezzo giro del mondo in aereo, ma le paturnie non pagano il biglietto. La buona notizia è che cambiare l’ambiente esterno può aiutare a viverle diversamente o almeno dare nuove idee per affrontarle.
Dico può, ma c'è da ricordarsi sempre del teorema di Hugo Pratt. “Viagiar descanta, ma chi parte mona torna mona.”
Siamo sincere.
2. Una cosa che dovreste guardare
Se non lo avete già fatto
Voi mi direte, ma dai Pa’, è uscito da mesi, questo film, ce lo dici adesso?
Ve lo dico adesso. Perché sono andata a vederlo quando ero a Milano per la cosa di nonna, e sono molto grata di averlo fatto.
So che molti l’hanno trovato lento, magari noioso. Io l’ho trovato poesia pura, una delle migliori cose (narrative) fatte da Wenders negli ultimi anni.
Questo film.
Sono così felice di essere riuscita a vederlo, e di averlo visto proprio ora che sono tornata a casa per vedere mia nonna in ospedale e avevo pochissima energia.
Mi ha parlato e commosso così tanto, è stato balsamo, perché così umano.
Se Claude Monet fosse stato vivo oggi e avesse fatto cinema, il risultato sarebbe stato qualcosa di simile, per via dell'attenzione alla luce come elemento vitale (cosa che condivido totalmente).
Sono un fan di Wim Wenders in generale, ma è vero che era da un po' che non faceva qualcosa di così bello.
Le informazioni su Hirayama non ci vengono fornite su un piatto d’argento: bisogna tacere, guardare, ascoltare e osservare per cercare di intuire la sua storia, per provare a capirlo.
E se si osserva abbastanza attentamente, si vedrà anche ciò che lo circonda: le questioni di classe, il precariato di chi non ha un lavoro da impiegato, il modo in cui non rispettiamo tutti i lavori allo stesso modo, la maniera in cui diamo un senso alla nostra vita e in cui vediamo o meno ogni essere umano che incrociamo sulla nostra strada come dignitoso e degno di essere ascoltato... Anche quando questo non dice una parola.
Anche l’attore, che esprime così tanto pur dicendo così poco. Incredibile, ha meritato assolutamente il premio come miglior attore a Cannes, secondo me.
Il Guardian ha scritto: "È un film dolorosamente bello e inaspettatamente incoraggiante per la vita. Tutto dipende - e questo è il punto centrale del messaggio delicatamente profondo del film - dal vostro modo di vedere le cose. Hirayama guarda il mondo con gli occhi, ma vede con il cuore". Io non so voi, ma #jesuisHirayama. 100%.
Se vi piace il cinema asiatico, segnalo anche questo: grazie alla collaborazione del Far East Film Festival di Udine con MyMovies, potrete vedere ventisette film asiatici online, a patto che siate su territorio italiano. Quindi, guardateli voi per me :D (Non è un link affiliato, sempicemente è per vostra informazione.)
3. Consigli di lettura: dall’outback australiano, un ri-consiglio e uno di archivio, da Lahore
Città di Polvere (Dirt Town) di Hayley Scrivenor Con tutto il casino di nonna e la conseguente flemma intellettuale completa da stress, ho avuto un blocco di lettura che aiutami a dire blocco di lettura. Questo libro mi ha sbloccato. Poliziesco, una ispettrice femmina e gay in una città dell’outback australiano più soffocante e bigotto, bambine scomparse, segreti di paese, segreti di famiglia. Io mi sono affezionata assai ai personaggi, e mi è piaciuto il modo di ritrarre i bambini dell’autrice, senza stereotipi, e molto umano: perché anche i bambini sono persone. E spesso siamo così impegnati a idealizzarli che ce lo dimentichiamo.
The Disappeared di Kim Echlin (non tradotto) Questo ve lo avevo già consigliato a febbraio, e ve lo riconsiglio perché nel frattempo l’ho riletto, come dicevo che avrei fatto. Che dire. Non è roba per stomaci fragili, perché si parla di Cambogia, pure se si comincia in Canada. Quel che è interessante è che mette in luce anche cose di cui non si parla molto spesso, cioè quel che è accaduto dopo che gli Khmer Rouge sono stati cacciati: l’occupazione vietnamita, la guerriglia degli Khmer Rouge stessi, ammassati al confine thai; il modo in cui il confine cambogiano è diventato un campo minato; la maniera in cui mentre fuori dalla Cambogia tutti parlavano di democrazia, a inizio anni 90, di democratico c’era di nuovo già gran poco.
Il consiglio di archivio è Ombre Bruciate (Burnt Shadows) di Kamila Shamsie. La recensione in italiano di Tuttolibri che vi ho messo è dietro paywall, ma se è la vostra prima visita, ve la regalano. Si comincia in Giappone con lo scoppio della bomba atomica, si continua in India, in Pakistan e in Afghanistan attraverso i decenni, si finisce pure a Guantanamo, insomma, uno dei miei soliti libri allegri, dove però viaggi nel tempo e nello spazio, e impari un sacco di roba.
4. Da ascoltare: una carica di allegria e pienezza + due segnalazioni dall’Argentina
è arrivata la nuova stagione di Wiser than Me, il podcast in cui Julia Louis-Dreyfus intervista donne più grandi di lei, nell'ottica di cambiare il modo in cui guardiamo alle donne sopra i 50, dando loro la parola, direttamente.
Ne avevo già parlato vari numeri fa, ma visto quanto amo questo podcast e quanta allegria mi mette addosso ascoltarlo, colgo l'occasione della nuova stagione per RI-segnalarvelo. Ce ne serve, di allegria.
Ci sono tanti modi di maturare e invecchiare e maturare per le donne, tanti quante donne esistono al mondo. Io alla scorsa stagione avevo deciso che volevo essere un incrocio tra Fran Lebovitz e Isabel Allende. Sembra una cavolata, ma l'importanza dei modelli è questa: non per forza, invecchiare dev'essere iniziare a mettere il grembiule e fare la nonna e basta. Per gli uomini questo è ben chiaro, per noi, meno.
Possiamo avere il grembiule (mia nonna), possiamo innamorarci di nuovo a 80 anni e mangiare edibles di maria (Isabel), possiamo essere un serbatoio inesauribile di ironia, irriverenza e attitudine punk quanto a lungo vogliamo (Fran.)
Non c'è un modo sbagliato di invecchiare… solo quello che fa per noi.
Vi lascio anche due episodi dove due scrittrici argentine parlano (anche) del crescere e dell'invecchiare, e delle loro riflessioni al riguardo: sulla stanchezza, sul voler continuare a sentirsi belle e chiedersi se ci sia qualcosa di male o di superficiale in questo desiderio (secondo me no, disse brandendo una sciarpa di seta), su come la società prenda una fase della vita che dovrebbe essere bello aver raggiunto, e di come invece la faccia diventare una fonte costante di patemi d'animo.
Qui ne parla la mia amata Mariana Enriquez, che poi nella sua letteratura lo declina di nuovo nel gotico, con una nuova raccolta di racconti appena uscita in spagnolo;
E qui ne parla Mariana Travacio, scrittrice e psicologa. Anche lei ha scritto una raccolta di racconti, e nell'intervista parla di com'è per le sue personagge arrivare a cinquant'anni e dirsi: cosa ho fatto finora? Cosa posso fare da ora? Di questo e di molto altro, anche di come la stanchezza estrema sembri essere una delle caratteristiche emotive del nostro tempo, per praticamente tutte le fasce di età, perché internet, perché mille possibilità e quindi mille possibilità di fare errori.
Catrame e Libertà è uno spazio sostenuto da voi, oltre che da me: nuove idee su libri, film, serie, viaggi e una selezione di articoli stimolanti due volte al mese, da uno spazio culturale che va dal Cile al Giappone.
Se volete sostenere il mio lavoro, e aiutarmi a pagare gli abbonamenti che pago per leggere tutto quello che leggo, e selezionarlo per voi, potete farlo con una donazione libera e non vincolante su PayPal, cliccando qui sotto. Grazie, se decidete di donare.
Niente abbonamenti, per ora. Per ora il parco giochi resta tale. Nessuna costrizione per nessuno.
Voglio ringraziare Sabrina e Marcello, che mi hanno promesso sostegno se gli abbonamenti a una certa li attivo. Che dire? Metter soldi in un progetto che ci porta qualcosa è una delle forme di sostegno più pragmatiche e utili che possano esserci, vivendo in un sistema come il nostro. Quindi, grazie mille, Sabrina e Marcello. Onorata è la parola.
5. Dove altro trovarmi, cose spaventevoli che ho fatto, il lavoro, il mondo reale
Due volte al mese insieme con Catrame non ti bastano? Yeah! Troviamoci su LinkedIn. Lì trovate (in inglese) un sacco di roba su come funziona il Neurolanguage Coaching, e perché quello che faccio è diverso da un corso d’inglese. C’entra molto poco, e ti dà tantissimo potere perché non c’è una Rottenmaier a dirti fai questo e fai quello. Cosa fai e con che tempi, lo decidi tu, non io. Sei tu che sai cosa ti serve. Anche se probabilmente pensi di no.
Ho ancora posto per il prossimo trimestre per aiutare il tuo inglese parlato con un percorso di Neurolanguage Coaching®, perché onestamente, con tutto quel che è successo nell’ultimo mese e mezzo, tra cambi di continente, clima, fuso e preoccupazioni, l’ultima cosa che mi passava per la testa era il lavoro — sono stata una lavativa completa, per quella cosa della lead generation, come dicono quelli bravi. Utile, per chi ha iniziato da non molto come me. Mi rimetto in carreggiata: se sono anni e anni che volete parlare meglio l’inglese, ma non c’è modo, parliamone. Probabilmente c’è, invece. Vi lascio anche un utile carosello su come funziona il tutto a livello pratico.
Qui c’è anche la mia pagina: amici grafici arrivati di recente, siete molti, abbiate pietà di me, che io già sono timida così, a parlare di lavoro qua nel parco-giochi. Lì trovate due regalini per voi: una per aiutarvi a iniziare a sviluppare il vostro inglese parlato in autonomia, se vi interessa farlo; l’altro invece per fare un po’ di self-coaching e vedere se è davvero la lingua inglese a bloccarvi, o se è qualcos’altro, magari relativo alle vostre esperienze di apprendimento passate.
Siccome dico sempre ai miei clienti di mettersi in gioco, e oltre che sulla lingua lavoriamo anche tantissimo su strategie pratiche anti-ansia per quando si deve parlare inglese, mi sono messa in gioco pure io, col francese, che è tipo la mia quarta lingua, ormai. Qui racconto (in francese e spagnolo) come lo feci. Vi metterò il link alla mia intervista in francese quando la avrò ascoltata io stessa, ma mi serve la rincorsa. Questo per dirvi che tutti i consigli che vi dò quando lavoriamo insieme… Li dò pure a me stessa quando mi fanno proposte terrorizzanti tipo parlare un’ora e passa del mio lavoro in francese. O cose anche peggiori per la paura professionale che fanno, che vi racconterò presto.
Scrivetemi se avete domande, ovviamente, rispondendo qui o scrivendo a paola(@)flowingenglish.com. E… Parlatene a chi pensate possa essere interessato. Ovviamente, è più bello lavorare con persone che hnno interessi comuni con noi.
Su Instagram sono @migrabonda, ma lo uso poco e per leggere il prossimo, principalmente. E per smadonnare su migrazioni e femminismo, vamos.
È la prima mail che ricevi? Qui trovi l’archivio di tutte le altre :)
6. Una poesia bella e dolente dal Kurdistan
Perché comunque nemmeno il Kurdistan è tutto sto carnevale di Rio, ahimè
Union
I don’t know how to become one with you.
If you’re heaven, then tell me.
I will kneel to every god.
If you’re hell, then tell me.
I will fill the earth with sin.
I don’t know how to become one with you.
If you’re an invaded soil, then tell me.
I will make my skin your flag.
If you are, as I am, a gypsy,
draw a border around me:
make me your country.
— Abdulla Pashew
È una poesia del 2014, e io l'avevo scoperta nel 2016, quando ero mezza innamorata di una persona che, oltre che essere una cara persona che è nella mia vita ancor oggi, all’epoca era in fuga dalla Siria. A quei tempi mi aveva toccato nell’intimo, perché avevano fatto corto circuito di varie cose importanti per me: l’amare, l’amore, il trovare la gentilezza maschile dopo che il maschile era stato asprezza per anni, la libertà, la diseguaglianza tra le persone. Però siccome questo numero è lungo, non mi dilungo (ma vi dico che è finita bene.
Siamo riusciti a farlo arrivare in Brasile. È lì nel sud, parla portoghese, vive, lavora, cambia città, fa pasticci sentimentali, insomma: vive. E ha un nuovo, fiammante passaporto brasiliano.
In Europa col cazzo, che gli davano la cittadinanza — dunque la libertà di movimento — così in fretta. In Italia sicuramente no, perché vale più il sangue morto di un trisavolo di tre generazioni fa che una vita intera passata in Italia, figuriamoci la vita di un rifugiato siriano che vale meno di niente. Ma anche di questo parliamo un'altra volta. Se no mi parte un comizio.)
Vi mando un abbraccio grande.
Oggi è il mio ultimo giorno a Bangkok. Da lì, andrò a Kuala Lumpur, e poi a Barcellona.
Ci sentiamo a metà maggio con il prossimo Inserto Infodemico, scritto da casa mia, questa cosa strana a cui negli ultimi anni mi sono abituata, con le piantine, e tutto.
A presto e grazie di leggermi,
Pao
Dobbiamo capire perché gli australiani si mettono la maglietta della birra e confermo il Laos è un luogo dove anche io sento di voler tornare
Che meraviglia la poesia, di una dolcezza unica ❤️ non sapevo dell'intervista a Mariana Enriquez, adoro 😍 puntata stupenda come sempre, bravissima!!